Crisi economica e crisi sanitaria, intrecciate, spingono ad alcune modificazioni negli investimenti e nei consumi. Il capitalismo sta cambiando?

(«il comunista»; N° 165 ; Luglio-Ottobre 2020)

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La crisi sanitaria che ha colpito il mondo negli ultimi dieci mesi e che, secondo l’opinione di molti epidemiologi, continuerà a colpire per tutto l’anno prossimo, e la crisi economica iniziata già nel 2019, diversi mesi prima dell’esplosione della pandemia da Covid-19, ma continuata a causa dell’attuale crisi sanitaria mondiale, hanno posto i capitalisti di tutto il mondo di fronte al problema che hanno sempre avuto, e che avranno sempre finché terranno in mano le leve del potere: come uscire dalla crisi senza tornarci tra tre, cinque, dieci anni?

Una risposta valida, capace di risolvere le cause delle crisi economiche non sapevano darsela ieri, non sanno darsela nemmeno oggi e non avranno alcuna possibilità di darsela nemmeno domani.

Perché? Il perché è presto detto, basta rileggere il Manifesto di Marx-Engels. E’ il modo di produzione capitalistico stesso che genera, in uno sviluppo che non riesce a frenare, i fattori delle crisi. I rapporti borghesi di produzione e di proprietà stanno alla base della società borghese moderna che ha creato e crea continuamente, come per incanto, mezzi di produzione e di scambio così potenti che sfuggono al controllo dei capitalisti: la società capitalistica, e quindi, in primis, i capitalisti, sono succubi del mercato, del capitale; non  guidano, sono guidati. Il vero padrone del mondo è il capitale, che detta le sue leggi economiche ai capitalisti e, quindi, ai politici e agli economisti che hanno il compito di  agevolare quanto più possibile il suo movimento, la sua valorizzazione, la sua circolazione, la sua riproduzione continua. Il meccanismo produttivo capitalistico funziona secondo la legge della concorrenza perché ogni azienda, non importa quale merce fabbrichi o con che mezzi circoli per il mondo, tende a massimizzare i profitti e a minimizzare i costi; in poche parole, a guadagnare il più possibile conquistando fette di mercato, creando mercato dove non c’è ancora e strappando mercato ai concorrenti. L’anarchia della produzione, quindi della circolazione delle merci e dei capitali, tipica dell’economia mercantile ed aziendalista, non permette alla borghesia di controllare il mercato; è il mercato che condiziona la borghesia nel suo agire economico, finanziario, sociale, politico.

La concorrenza borghese è, in realtà, una guerra, e in guerra sono ammessi tutti i mezzi pur di vincere. Come detto a chiare lettere nel Manifesto di Marx ed Engels, «la borghesia è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri». Questa lotta della borghesia rende evidente il fatto che le forze produttive moderne, sfruttate a più non posso per ottenere il massimo di plusvalore e di profitto, a causa delle crisi in cui precipita non solo l’industria o il commercio, ma la società intera, sono spinte a rivoltarsi ad un certo punto contro i rapporti borghesi di produzione e di proprietà che sono, come afferma il Manifesto, «le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio». La borghesia, perciò, proprio perché ne va della sua esistenza come classe dominante, deve affrontare non solo le crisi del suo sistema economico, ma anche le crisi sociali che le contraddizioni della sua economia provocano. La lotta della borghesia, a partire dalla lotta contro frazioni diverse della borghesia stessa e contro le borghesie straniere, si estende alla lotta contro le forze produttive che si ribellano ai rapporti di produzione e di proprietà esistenti, in sostanza alla lotta contro il proletariato che rappresenta l’unica classe sociale che può avere la forza di combatterla e sconfiggerla.

Il problema che la società capitalistica ha incontrato, in un dato stadio del suo sviluppo, è stato quello della sovrapproduzione, ossia della quantità di merci, e di capitali, che non riescono ad essere assorbite dal mercato garantendo un tasso di profitto utile a mantenere in vita l’attività economica capitalistica e, naturalmente, i benefici e i privilegi della classe borghese. Sovrapproduzione non assorbita dai mercati che, oltre a non realizzare il valore che il capitale si attende dallo scambio, frena, inceppa e blocca la produzione, mettendo in crisi l’intero sistema di produzione e, quindi, l’intera società.

Le crisi commerciali, caratteristiche dello sviluppo capitalistico della prima metà dell’Ottocento, quando il capitale finanziario, col tempo, ha preso il sopravvento sul capitale industriale e commerciale, si sono trasformate in crisi economico-finanziarie. La sovrapproduzione non riguarda più soprattutto i prodotti fabbricati che risultano invenduti, riguarda sempre più i capitali che non trovano settori economici dove essere investiti e, quindi, valorizzati. Le borse, e quindi il mercato azionario, obbligazionario e il mercato dei titoli di Stato, hanno contribuito alla raccolta di capitali da tutto il mondo e rappresentano il vero mercato finanziario, segnando la temperatura dell’andamento economico e finanziario non solo dell’economia delle più grandi aziende – le società per azioni –, ma di ogni economia nazionale e dell’economia internazionale.  L’economia reale – cioè l’economia produttiva nel senso proprio della parola – fa ormai la parte dell’economia “di servizio”; ossia, non sono più i capitali che servono per sviluppare l’industria e il commercio, ma è l’economia produttiva, l’economia reale che serve per accrescere il capitale finanziario, il capitale fittizio, cioè l’economia fittizia. Il capitale finanziario, quello che meno di ogni altro è controllabile da parte dei possessori di azioni e titoli, è di per sé internazionale e la sua salute non dipende dalla cura che il vecchio padrone delle ferriere o l’antico proprietario terriero potevano avere nei confronti dei capitali depositati in banca di cui erano padroni, ma dall’incrocio sempre più ingestibile di capitali e di informazioni provenienti da una miriade di luoghi e ambiti diversi e contrastanti in cui la concorrenza, la lotta per strappare mercati ai concorrenti, la lotta per assicurarsi disponibilità di capitali in precedenza impossibile, l’appropriazione a man salva di pacchetti azionari e di aziende grazie ai quali ottenere guadagni temporanei, formano un gigantesco crogiuolo in cui l’economia reale non ha più alcun ruolo determinante se non quello di offrire all’economia finanziaria la base per esistere e per gonfiarsi. E, mentre la classe dominante borghese, i suoi servitori e i suoi pretoriani, sguazzano nell’abbondanza, la stragrande maggioranza del loro amatissmo popolo, in particolare le masse proletarie e sottoproletarie, vivono di stenti, vedono andare in rovina la propria vita precipitando nella miseria e nella fame. Sopravvivere diventa la più pesante delle fatiche.

I soldi non si mangiano e non si bevono, costringono però i proletari – i “fornitori” di forza lavoro – ad andare al mercato ad acquistare i beni per vivere contando sul loro misero salario, su quella quantità di denaroche corrisponde al minimo indispensabile per sopravvivere e per recuperare quotidianamente le forze. Ma non tutti i proletari hanno un lavoro che consenta loro di percepire un salario o un salario sufficiente per sopravvivere; e non tutti possono contare su un salario percepito per tutta la “vita lavorativa”, e poi su una pensione, cioè su un salario “differito” (sempre che non muoiano prima per gli incidenti sul lavoro, o  malattie contratte sul lavoro o nell’ambiente inquinato in cui vivono). Lo sviluppo capitalistico, oltre a registrare ciclicamente una sovrapproduzione di merci e di capitali, registra anche una sovrapproduzione di forza lavoro, di braccia, di proletari. Una delle costanti dell’economia capitalistica, quindi, è la crisi di sovrapproduzione di merci, di capitali e di forza lavoro. Lo sviluppo capitalistico produce inevitabilmente disoccupazione, generando quell’esercito industriale di riserva che la borghesia usa sistematicamente come minaccia per abbattere i salari, per aumentare i ritmi e l’intensità di lavoro quotidiano; col tempo, alla massa di forza lavoro inoperosa nazionale si è aggiunta una massa di forza lavoro immigrata che, provenendo da paesi con un costo della vita più basso di quello dei paesi capitalisti avanzati e, quindi, con abitudini di vita più semplici e con meno bisogni da soddisfare, oppone in generale molto meno resistenze allo sfruttamento intenso e a basso costo. Così, la concorrenza tra proletari, che è nata storicamente con la formazione dello stesso proletariato, e divide chi è più pagato da chi è meno pagato, si accentua e permette alla classe borghese non solo di aumentare la quota di tempo giornaliero di lavoro non pagato, e quindi di estorcere con più facilità il plusvalore dal lavoro salariato, ma anche di frenare le rivendicazioni della classe operaia autoctona e addirittura di abbattere i suoi salari.

Nonostante la borghesia abbia in mano queste  potenti armi per affrontare la sua lotta contro il proletariato – che in molte fasi del suo dominio ha le caratteristiche di essere una lotta preventiva contro le possibili rivolte sociali – questo viene, per di più, inebetito dalla propaganda ideologica borghese che fa leva normalmente sul nazionalismo, sulla razza, sul credo religioso, oltre che, ovviamente, sulle differenze di salario tra i meglio pagati e i peggio pagati; ma può sempre risvegliarsi e riconoscere in sé stesso una forza sociale capace non solo di tener testa alla borghesia, ma di aggredirla per abbattere il suo potere.

Dalla storia, nei duecento anni che ci dividono dai primi sussulti di lotta classista in Francia e in Inghilterra, non solo i marxisti, ma anche la borghesia ha tratto delle lezioni. Una di queste lezioni è quella di non dare per scontato che il proletariato, una volta sconfitto nella sua lotta rivoluzionaria – come è successo nel 1848 europeo, nel 1871 parigino e negli anni Venti del Novecento in Europa, negli Stati Uniti e in Asia –, non si rialzi più.

Il proletariato è una classe viva, una classe che genera proletari che hanno tutto un mondo da guadagnare. E’ una classe che in questo mondo borghese non ha nulla da salvare, perché salvandolo, aiutandolo ad uscire dalla sue continue e sempre più profonde crisi, non fa che rafforzare il dominio del capitale, e quindi della borghesia, dunque della schiavitù salariale in cui è costretto a sopravvivere di generazione in generazione.

I borghesi hanno una lunga esperienza di dominio sociale. Agli inetti, agli avidi che hanno la vista corta, agli arraffoni, ai goderecci, a quelli che nel loro orizzonte vedono solo belle donne, belle auto, aerei privati, conti in banca che si gonfiano automaticamente, a quelli che intrecciano senza problemi la loro vita con quella dei faccendieri, dei delinquenti, dei mafiosi, a quelli che licenziano decine, centinaia, migliaia di lavoratori perché “il mercato va male”, perché l’azienda non fa più i profitti di un tempo, perché “salvare l’azienda” viene prima di tutto, a tutti questi campioni dello sfruttamento del proletariato fanno da contraltare altri campioni simili. Questi ultimi sono i borghesi più intelligenti, più “illuminati”, più preoccupati del loro avvenire e dell’avvenire dei loro figli, più sensibili ai problemi che dalla società e, in particolare, dalla gioventù genericamente intesa, sorgono su temi come l’inquinamento ambientale, l’ecosistema, il clima, l’istruzione, il lavoro. Il borghese che gioca in borsa, che usa polizia e carabinieri per sgomberare un picchetto operaio, che si arma per non essere derubato, che vive secondo il motto “non è un mio problema” se un barcone affonda e gli immigrati che lo affollavano annegano, che sostiene i partiti di destra o di sinistra basta che proteggano i suoi interessi e che gli facilitino gli affari, che sia maschio o femmina, giovane imprenditore o vecchia volpe, il borghese di questo tipo poggia la sua esistenza sulle stesse basi su cui è appoggiata l’esistenza del borghese con due lauree, dell’imprenditore innovativo e che sollecita la collaborazione di tutti i suoi dipendenti, del borghese che sostiene la banca “etica” e che non investe denaro nelle banche che lo prestano alle fabbriche d’armi, del borghese attento all’ambiente, che mangia prodotti dell’agricoltura biologica e che preferisce l’energia da fonti rinnovabili piuttosto che da fonti fossili, che vorrebbe tutte le città senza polveri sottili e, soprattutto, la pace sociale. Tutti i borghesi, al di là di quel che gira loro in testa e dello stile di vita che adottano, fanno parte della classe che vive sullo sfruttamento del lavoro salariato; il suo dominio sociale e il suo benessere dipende dai rapporti di produzione e di proprietà che caratterizzano la società capitalistica: da un lato i proprietari di tutti i mezzi di produzione, terra compresa, e che si appropriano l’intera produzione sociale, dall’altro i proprietari della sola forza lavoro, i lavoratori salariati, i senza riserve.

Perciò ogni prospettiva che i borghesi disegnano per il loro presente e futuro è sempre, totalmente, condizionata dalle leggi oggettive della società divisa in classi. La ricerca di vie di conciliazione tra le classi, caratteristica delle tendenze rifomiste (sia di destra che di sinistra) non è che un modo borghese per cercare di attenuare l’antagonismo di fondo che oppone la classe proletaria alla classe borghese dominante. E, ben sapendo che – in determinate situazioni di particolare tensione sociale causata dall’acutizzarsi delle contraddizioni della società e dalle inevitabili crisi che scuotono l’intera società – la classe dei proletari si rivolta contro i padroni e le istituzioni che impongono loro sacrifici sempre più pesanti, cosa che la borghesia non può rinunciare a fare perché agisce come classe dominante e deve instaurare un ordine sociale sempre più stretto e soffocante. La classe borghese si interroga non solo su quale politica sia meglio adottare per difendere con più efficacia i suoi interessi di classe, quindi la società capitalistica e il modo di produzione ad essa corrispodente, in modo da riprendere a far girare nuovamente i profitti dopo ogni crisi, ma anche su quale direzione puntare la famosa “crescita economica” una volta che il fondo della crisi sia stato toccato. Sono anni che i borghesi “di sinistra” parlano di ecologia, di ambiente, di conversione delle produzioni inquinanti in produzioni ecologicamente sostenibili, di cambiare radicalmente le fonti di energia dal fossile al rinnovabile e di modificare la stessa gestione delle imprese coinvolgendo di più i lavoratori all’indirizzo e alla gestione delle aziende. Naturalmente senza minimamente mettere in discussione le leggi del mercato e della concorrenza, con le quali invece devono sempre fare i conti.

 

VERSO UNA "RIVOLUZONE ETICA"?

 

Da un po’ di tempo, si tengono convegni in cui noti economisti di fama mondiale diffondono le loro elucubrazioni e prospettano atteggiamenti diversi che il capitalismo dovrebbe adottare, appunto per mantenersi in vita ed evitare di precipitare nel baratro di una crisi epocale da cui uscire soltanto con una terza guerra mondiale, o con il deperimento inesorabile della civiltà industriale moderna e con la scomparsa di qualche miliardo di persone dalla faccia della terra.

Il Sole-24 ore del 22/9/2019 riportava una notizia che ha una sua validità del tutto attuale, secondo cui, nell’agosto dello stesso anno, «i rappresentanti della Business Roundtable, la potente organizzazione composta dagli amministratori delegati di duecento tra le più importanti imprese americane, da Amazon alla Apple, dalla Ford a JP Morgan, hanno sottoscritto un documento con il quale si impegnano ad orientare le loro imprese verso una nuova “mission”: non solo profitti, ma azioni responsabili verso l’ambiente, le future generazioni e tutti gli stakeholder, i fornitori e, naturalmente, i lavoratori».

Salta subito all’occhio che il primissimo pensiero di questi capitalisti è il profitto, non c’è dubbio alcuno. Ma si sono preoccupati di accompagnare questa loro principale attività con l’impegno di agire per la difesa dell’ambiente (oggi va sempre di moda), di pensare alle “future generazioni” (aldilà delle accuse loro mosse da Greta Thunberg e dal movimento che ha suscitato) e di agire “con responsabilità” verso i fornitori, la comunità nella quale l’impresa agisce e, per ultini, (ma guarda un po’!), i lavoratori. Fa parte di una nuova “moda” l’attenzione che certe imprese – soprattutto quelle che si promuovono come imprese che pensano prima di tutto a soddisfare le esigenze e i bisogni dei consumatori – portano verso quelli che hanno chiamato stakeholder, cioè gli azionisti, i clienti, i dipendenti, i fornitori, che formerebbero la “comunità sociale” con cui l’impresa interagisce, perseguendo sempre il profitto aziendale, ma cercando di armonizzare i suoi obiettivi economici con quelli sociali e ambientali del territorio di riferimento. L’ottica in cui si muoverebbero queste imprese è sempre quella di far profitto – il che è essenziale –, ma «preservando il patrimonio ambientale, sociale e umano per le generazioni presenti e future». Secondo questa sostenibilità aziendale (la chiamano Corporate sustainability), questi stakeholder possono incidere sul ruolo che l’impresa svolge nella comunità in cui opera (la comunità dei consumatori-clienti può essere locale, nazionale o internazionale), rafforzandolo grazie al loro coinvolgimento nei processi decisionali. Nei fatti è un modo diverso di applicare la collaborazione tra le classi sistematizzata dal fascismo ed ereditata in pieno dalla democrazia. I consumatori, infatti non sono che l’insieme indistinto di tutti i compratori: nel mondo borghese, tutti sono “consumatori” di qualcosa, tutti devono comprare se vogliono soddisfare i loro bisogni, e se hanno i soldi necessari per farlo, tutti sono clienti potenziali delle aziende che producono e distribuiscono le merci prodotte. L’impresa che facilita la scelta dei prodotti di cui si ha bisogno o che si vogliono acquistare, che mette il cliente nelle condizioni più comode per avere quel che serve nel modo più veloce e meno caro possibile, è l’impresa favorita alla quale i consumatori-clienti si rivolgeranno con continuità; è un modo come un altro – d’altra parte facilitato dalla comunicazione internettiana – per fidelizzare (uno dei grandi obiettivi di ogni azienda) i propri clienti.

Questo coinvolgimento, al quale questi amministratori delegati chiamano anche i lavoratori, che cosa cambierebbe in concreto? Forse che i salari dei lavoratori aumentano, le ore di lavoro giornaliere diminuiscono, il ritmo di lavoro rallenta, gli infortuni sul lavoro spariscono, i proletari sono meno stressati, vivono più sereni e senza la spada di Damocle sulla testa per un posto di lavoro che può svanire dalla sera alla mattina? Nel tremendo frullatore del mercato, e in una situazione di crisi che succede ad altre situazioni di crisi, le grandi aziende si salvano sempre, i lavoratori salariati ci perdono sempre! Il coinvolgimento dei lavoratori nei progetti di “sostenibilità aziendale” non è che un modo per gestire gli investimenti dell’azienda senza perturbazioni causate dal malcontento o dalla lotta della massa salariata impiegata: è un altro modo per comprare la condivisione dei lavoratori agli obiettivi aziendali, e così i lavori aumentano il loro asservimento ai capitalisti.

La cosiddetta ed enfatizzata “rivoluzione etica” attraverso la quale il capitalismo dovrebbe “cambiare in meglio” si baserebbe quindi su un modo nuovo di fare investimenti. Ma, come ogni investimento di capitale, questo deve rendere, deve aumentare, nel giro di qualche ciclo di produzione, il capitale investito. Sempre Il Sole-24 ore citato sopra dava notizia che la più grande società di investimento del mondo, la BlackRock di New York, aveva lanciato all’inizio del 2019 ben sei fondi di investimento gestiti secondo i criteri di sostenibilità ambientale, sociale e di gestione dell’impresa (detti ESG, Environmental, Social, Governance). Data l’influenza che questa società ha sull’andamento delle borse principali del mondo e quindi sul mercato internazionale (nel 2017 gestiva un patrimonio netto totale di oltre 6.000 miliardi di $, praticamente i Pil di Francia e Spagna messi assieme), è evidente che le decisioni di spostare consistenti investimenti nei cosiddetti fondi etici condizioneranno considerevolmente le decisioni di molti altri investitori mondiali. D’altra parte la BlackRock è uno dei principali azionisti di migliaia di aziende in tutto il mondo, aziende rilevanti nei settori dell’energia, della chimica, dei trasporti, dell’agroalimentare, dell’aeronautica, dell’immobiliare; ed è, guarda caso, un importantissimo azionista singolo di società finanziarie come JP Morgan Chase, Bank of America, Citibank, Deutsche Bank, Intesa Sanpaolo, Bnp, Ing. e aziende come Apple, McDonald’s, Exxon Mobil, Shell (1). Ciò non le ha impedito, naturalmente applicando rigorosamente i criteri di gestione della più ampia “sostenibilità aziendale”, e il più ampio coinvolgimento anche dei propri lavoratori nei “processi decisionali” dell’azienda, di licenziare, nel 2019, 500 persone, ossia il 3% dei suoi quasi 15.000 dipendenti (2). Sostenibilità aziendale, spostamento degli investimenti nei fondi etici e coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali delle aziende, in conclusione significa licenziamenti!

In ogni caso, BlackRock stima che «nei prossimi cinque anni almeno la metà dei principali investitori istituzionali avrà un portafoglio gestito, per più del 50%, coerentemente con i criteri ESG di sostenibilità», e «nella sola Europa, nell’arco dei prossimi dieci anni, ci si aspetta un aumento di questi investimenti di circa 20 volte» (3). Dunque, in sostanza, se gli stessi criteri di gestione aziendale proposti da BlackRock hanno portato tale azienda a licenziare 500 dei suoi dipendenti, quante migliaia di lavoratori verranno licenziati dalle aziende nelle quali la BlackRock è principale azionista e dalle aziende che attuano i suoi progetti di sostenibilità aziendale? Decine di migliaia, sicuramente, a conferma delle tesi marxiste sul capitalismo.

Un  altro campo su cui i grandi capitalisti puntano è quello dei nuovi investitori che si affacciano sul mercato. Sono giovani imprenditori, come detto, più sensibili dei loro predecessori che difendevano il famoso 1% dei più ricchi contro il restante 99%, perché la loro missione era esclusivamente aumentare i profitti delle imprese, a qualsiasi costo, e perché sono i più ricchi che possono dare lavoro a tutti gli altri. Ma l’aumento delle diseguaglianze sociali, le masse sempre più numerose di emigranti che fuggono dai loro paesi d’origine per raggiungere i paesi capitalisti più ricchi, e il conseguente aumento delle tensioni sociali a fronte di un periodo in cui le crisi, sia economiche, sociali, politiche che militari, non danno tregua, stanno portando frazioni borghesi sempre più ampie, e a livello internazionale, a riconsiderare la loro mission. L’articolo de Il Sole-24 ore che stiamo citando, mette in evidenza che questi nuovi e giovani imprenditori riceveranno nei prossimi anni dai propri genitori (nella classificazione delle generazioni fatta dall’istituto di ricerca Pew Research Center, questi sono chiamati baby boomers, nati tra il 1946 e il 1964, cioè nati nell’immediato secondo dopoguerra, durante la guerra di Corea e del Vietnam, nel periodo della cosiddetta “guerra fredda”, dei Kennedy e dei Martin Luther King, e dell’espansione economica mondiale) «beni e risparmi pari a 30 trilioni di dollari», una massa di ricchezza enorme «capace di fare la differenza in ogni settore industriale e tecnologico e certamente capace, con la sua spinta finanziaria, di influenzare l’evoluzione delle corporate culture a livello globale». Queste frazioni borghesi, quindi, si attendono che questa “mutazione culturale”, sostenuta da una crescente disponibilità finanziaria, alimenti nel prossimo futuro una pressione che spingerà il capitalismo a cambiare, ad evolvere verso la mitica sostenibilità.

Bene, questo è quel che si attendono i borghesi più disposti a cedere qualche briciola della loro ricchezza pur di frenare uno sviluppo economico-finanziario che finora ha prodotto molti guai all’ambiente e alle masse umane. Cambiare la direzione su cui il capitalismo è indirizzato da decenni, verso un’evoluzione meno densa di antagonismi, naturalmente da raggiungere gradualmente per mezzo di una “coscienza civile” che spontaneamente dovrebbe sorgere nelle nuove generazioni di imprenditori, dando più “ascolto” – come sostiene papa Francesco – non al profitto, ma alla condizione umana...

Con quali mezzi il capitalismo di oggi dovrebbe sconfiggere la spinta verso il baratro di una povertà gigantesca che azzanna alla gola miliardi di persone, e di una crisi economica che – gettando masse enormi di proletari e sottoproletari nella miseria, nell’indigenza, ammassandoli in ghetti vasti come metropoli dove igiene, salute fisica e mentale non esistono – si propaga da un paese all’altro con la velocità di un volo supersonico; con quali mezzi il capitalismo potrebbe, dovrebbe, vorrebbe cambiare? Puntando per l’ennesima volta sugli investimenti di capitali, sempre indirizzati al profitto, ma, in parte, indirizzati in settori che dovrebbero in un certo senso sanificare l’ambiente, disinquinare terreni, fiumi, mari e l’aria che respiriamo, ridare agli uomini di qualsiasi classe sociale il senso di appartenenza ad una comunità che piace tanto definire “comunità umana”.

Il mito del capitalismo dal volto umano è rinato e si sta diffondendo nel mondo. Una nuova cultura dovrà impossessarsi delle generazioni avvenire, la cultura di un capitalismo che armonizzi gli interessi di tutti, capitalisti, bottegai, preti, intellettuali, operai, migranti, diseredati, militari, invece di acutizzare i contrasti, alzare muri, rincorrere il profitto con ogni mezzo, armarsi fino ai denti per difendere la proprietà privata all’insegna di mors tua vita mea. Il mito della green economy, strisciante trent’anni fa, si è impossessato di molti governanti, delle istituzioni internazionali, si sta trasformando da utopia a realtà possibile: i capitalisti hanno capito che “così non si può più andare avanti”, che “bisogna fare qualcosa”, che “bisogna cambiare direzione”... e l’obiettivo fondamentale è sempre e soltanto uno: salvare la struttura economica della società, ridarle vigore, farla progredire per il “bene comune”!

Esiste, per noi comunisti rivoluzionari, un’invarianza fondamentale su cui poggia tutta la nostra attività passata, presente e futura: l’invarianza del marxismo, della teoria della rivoluzione proletaria, della dittatura di classe esercitata dal partito comunista rivoluzionario dopo aver abbattuto lo Stato borghese, della rivoluzione proletaria internazionale per avviare finalmente la società al superamento della divisione in classi antagoniste trasformandola in società di specie, in società senza classi. Siamo sempre stati accusati di essere degli utopisti, nonostante la proclamata scientificità del socialismo marxista, in realtà riconosciuta dai borghesi ma solo per il capitalismo dell’Ottocento. Alla prova storica della dittatura proletaria, instaurata in Russia nell’Ottobre 1917 dopo la vittoriosa rivoluzione proletaria, e di quella che noi abbiamo sempre chiamato la sua degenerazione, nella quale il potere sovietico ha perso i caratteri proletari per assumere i caratteri borghesi e capitalisti che hanno portato la Russia ad uno sviluppo accelerato del capitalismo nazionale con tutto il suo portato di sfruttamento intensivo della forza lavoro salariata e, in contemporanea, allo sviluppo delle contraddizioni tipiche del capitalismo (lotta di concorrenza a livello mondiale, crisi economiche si sovraproduzione, influenza e guerre imperialiste), alla prova storica, quindi, della sconfitta del movimento comunista in Russia e nel mondo, la borghesia mondiale – dopo aver falsamente definito la costruzione del capitalismo nazionale con il nome di “costruzione del socialismo” – ha inneggiato al “crollo del comunismo”, alla disfatta del prospettiva secondo la quale la classe proletaria mondiale avrebbe potuto disfarsi completamente del capitalismo, delle sue leggi economiche, sociali e politiche e, naturalmente, di tutta la sua sovrastruttura politica, religiosa, culturale. Così, falsificando la realtà storica, non poteva che tornare in auge quella che per i borghesi è l’unica società possibile al di fuori della quale non ci sarebbe alternativa: la società capitalistica, l’unica società della storia che sarebbe in grado di rimediare ai guasti che essa stessa provoca attraverso l’uso più accorto e intelligente di misure politiche, sociali, tecniche, di carattere rifomatore che non vanno ad intaccare la struttura economica di base, il modo di produzione capitalistico.

Esiste perciò, anche per i borghesi, e per tutti i sostenitori della conservazione sociale capitalistica, una invarianza a cui si aggrappano ogni volta che la loro società entra in crisi: l’invarianza del modo di produzione capitalistico, che sta alla base di qualsiasi sovrastruttura politica, religiosa, culturale, tecnica creata per “gestire” il potere in una società che dimostra, da più di centosettant’anni, di non poter essere gestita dalla classe borghese che domina sulle altre classi esclusivamente attraverso la difesa dei rapporti di produzione e di proprietà capitalisti. Sono questi ultimi che condizionano l’esistenza stessa della borghesia, che la avvolgono in quella specie di enorme contenitore d’acciaio che si chiama Stato, unica vera ed efficace difesa dei suoi interessi e della sua stessa esistenza.

 

LA BORGHESIA NON CAMBIERÀ MAI

 

Ma il modo di produzione capitalistico, come ha dimostrato il marxismo, e come le fasi storiche del suo stesso sviluppo confermano ampiamente, non è riformabile: per quanti interventi le classi borghesi facciano e si inventino per non essere costantemente sorprese dalle leggi economiche che hanno dato e danno al capitalismo la forza di essersi imposto rispetto ad ogni altro modo di produzione delle società precedenti e di resistere – finora – all’inesorabile declino della vita sociale di una umanità sempre più soffocata da quelle stesse leggi economiche, il capitalismo si sviluppa non secondo le volontà delle classi borghesi, ma secondo il suo stesso meccanismo produttivo, e questo sviluppo non è mai stato e non è uno sviluppo graduale, controllabile, indirizzabile secondo progetti di volta in volta sfornati da nuovi architetti sociali e da nuovi guru dell’economia “sostenibile”. Il limite del capitalismo, cioè del modo di produzione capitalistico, è il capitalismo stesso, e lo dimostrano tutti i governanti, in ogni paese, costretti a ricorrere continuamente a misure di emergenza per affrontare situazioni critiche inaspettate o, semplicemente, non controllabili preventivamente.

Per quanti canali i capitalisti e i loro ceti dirigenti costruiscano per controllare l’improvviso flusso violento e impetuoso delle onde finanziarie che governano l’andamento economico delle aziende, delle nazioni e del mondo, quell’improvviso flusso violento ed impetuoso esonda costantemente, distrugge argini, rovina impianti, infrastrutture, case, attività di ogni tipo, provoca morti e dispersi. Come l’enorme quantità d’acqua sospinta dai venti e dalla forza cinetica del suo stesso movimento si trasforma in uno tsunami che tutto travolge e distrugge, così l’enorme quantità di merci, e di capitali, immessa nel mercato, sospinta dalla spasmodica ricerca di profitto, non potendo trovare il regolare sbocco nel mercato finisce per intasare ogni canale che lo portava al mercato e, non avendo a disposizione – a differenza delle piene dei fiumi – un terreno oltre l’argine su cui esondare, provoca una specie di onda di ritorno che va a distruggere i luoghi da cui è originata, le aziende produttrici, i magazzini di smistamento, le vie di comunicazione. Improvvisamente «la società si trova ricondotta a uno stato di momentanea barbarie – scrive il Manifesto nel 1848 –; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria e il commercio sembrano distrutti».

E’ la crisi di sovrapproduzione, signori borghesi, alla quale è condannata la vostra società, una crisi che nessuna società precedente aveva mai conosciuto. Troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio, grida il marxismo dal 1848; in una parola, troppe forze produttive rispetto ad un mercato che non riesce ad assorbire tutta l’iperfolle produzione di cui è capace l’industria moderna. E contro tutta questa abbondanza straripante, troppa miseria, troppa fame, troppi sprechi, troppe guerre, troppo inquinamento, troppe malattie, troppe morti. Il capitalismo si è sviluppato troppo, sta durando da troppo tempo, è ora che i proletari si accorgano di non essere soltanto una classe di schiavi salariati – come sono sotto il dominio della borghesia – ma di essere una classe che proprio perché non possiede nulla se non la forza lavoro, è l’unica forza viva della società, è l’unica classe rivoluzionaria che ha bisogno non di più cultura borghese, di più professionalità o più specializzazioni, ma di organizzare i propri interessi immediati e storici in quanto classe proletaria, affidando il proprio futuro non ai cantori di un capitalismo riformato inesistente, ma alla propria forza sociale, una forza distruttiva del presente capitalistico per aprire la strada al futuro della collettività umana, al futuro della specie.

Strada lunga, ardua, piena di contraddizioni, di ostacoli, di errori, una strada che però si collega storicamente a percorsi rivoluzionari già fatti e che le forze di conservazione sociale, borghesi e opportuniste, hanno falsificato, nascosto, cancellato dalla memoria delle più giovani generazioni. Una strada su cui il proletariato ha già incontrato il suo partito di classe, il partito rivoluzionario come guida verso un’emancipazione che non si potrà ottenere se non distruggendo la società mercantile attuale. Le trombonate sulla democrazia parlamentare, sulla democrazia diretta, sul coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende perché queste sposino il profitto capitalistico con la cosiddetta sostenibilità sociale e ambientale servono soltanto a distrarre i proletari dai loro specifici interessi di classe perché si sottomettano, per vie diverse e soprattutto per convizione, agli interessi di classe della borghesia.

Ai proletari serve comprendere le semplici e inequivocabili parole del Manifesto di Marx ed Engels:

«La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili» (4) [i neretti sono nostri].

I proletari, in verità, soprattutto in assenza dell’attività delle loro associazioni di classe, in assenza della lotta di classe e dell’intervento del partito di classe nelle lotte proletarie, non sanno di avere un compito storico sulle proprie spalle. Ma è lo stesso sviluppo del capitalismo, e dell’antagonismo di classe, che oppone totalmente gli interessi di classe tra proletari e borghesi, che carica il proletariato di questo compito. Non è di una “scelta”, che gli imbecilli affidano alle “coscienze” di ogni proletario, tra il voler fare o no la rivoluzione, che si tratta. E’ il movimento reale delle forze produttive che si scontrano con le forme di produzione esistenti che storicamente tende ad abolire lo stato di cose presente: si tratta di gigantesche forze sociali, di uno scontro fra classi per la vita o per la morte e non un duello tra ideologie, tra programmi, tra partiti. Nei Grundrisse, Marx scriveva: «La società borghese, basata sullo scambio di valore, genera rapporti di produzione e circolazione che rappresentano altrettante mine per farla esplodere. Esse sono una massa di forme che si oppongono all’unità sociale, il cui carattere antagonistico non potrà mai essere eliminato attraverso una pacifica metamorfosi. D’altra parte, se noi non potessimo già scorgere nascoste in questa società - così com’è - le condizioni materiali di produzione e di relazioni fra gli uomini, corrispondenti ad una società senza classi, ogni sforzo per farla saltare sarebbe donchisciottesco» (5).

La società senza classi di domani, il comunismo, la società di specie come l’ha chiamata Amadeo Bordiga, è dunque un risultato storico della lotta finale tra forze di produzione e rapporti borghesi di produzione e di proprietà, non un ideale al quale conformare la società di domani. E la classe del proletariato è il vettore sociale di quella lotta, una lotta che nasce da quei rapporti antagonistici, ma che per essere una lotta consapevole delle proprie finalità, ha bisogno di essere guidata da un particolare organo della lotta rivoluzionaria che si chiama partito di classe. Alla costituzione di questo partito noi dedichiamo tutte le nostre forze.

 


 

(1) Cfr. Cos’è davvero BlackRock, la roccia invisibile che governa il mondo, “Corriere della sera”, 7 maggio 2018. Oltre che interessarsi dei fondi di investimento, BlackRock è anche proprietaria di un software, Aladdin, ideato per la gestione del rischio e utilizzato per proteggere le più diverse società da cattivi investimenti. Questo software è venduto in 50 paesi, analizza 30 mila portafogli anche di concorrenti di BlackRock, di grosse banche e assicurazioni; la sua forza è data dal fatto che Aladdin gestisce 250.000 operazioni ogni giorno per un capitale di 20 mila miliardi di dollari, dunque una montagna di dati che i server di BlackRock accumulano in appositi box digitali creati all’uopo dalla società (i famosi cloud) sui quali accedere via internet, avendo le password necessarie, da qualsiasi sua filiale sparsa per il globo. Non è secondario sapere che questo gigante finanziario americano è stato assunto da molti governi europei per controllare molte società, non ultime diverse banche a rischio fallimento durante la crisi dei subprime e dei titoli tossici, in Irlanda, in Grecia, a Cipro, in Spagna, in Olanda, oltre ad essere un importante consulente della BCE. Anche per la successiva citazione l’articolo di riferimento è questo.

(2) Cfr. BlackRock to cut 3 percent of its workforce in coming weeks: memo, in “Reuters”, 10 gennaio 2019.

(3) Sempre da “Il Sole-24 ore” del 22/9/2019.

(4) Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, pp. 116-7. Per le precedenti citazioni vedi pp. 107-8 e 113.

(5) Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti come i Grundrisse), raccolta di scritti di Marx del 1850-51 e del 1857-59. La Nuova Italia Editrice, 1969.

 

 

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