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La Russia brucia

 

 Una lunga estate, torrida e incandescente, ha registrato in Russia colossali incendi che hanno bruciato decine di milioni di ettari di foreste e campi, sottoponendo la popolazione di vaste aree, compresa la capitale Mosca, a lunghi periodi di aria irrespirabile e nociva e provocando enormi danni all’agricoltura avendo bruciato quantità gigantesche di grano, orzo, mais ecc. Incendi che non possono essere spiegati con una colossale autocombustione, ma che sono certamente dovuti alla mano di incendiari al servizio di interessi specifici. Tutti i commentatori hanno dato la colpa principale all’alta temperatura che, eccezionalmente quest’anno, ha colpito la Russia, e al vento che ha propagato gli incendi in tutte le direzioni. A Mosca, affermano i vari media, per settimane la temperatura variava dai 40 ai 44 gradi centigradi, e non andava meglio a San Pietroburgo o negli Urali. Secondo il Centro Meteorologico russo, di cui  i media informano che ha messo a punto un sistema d’analisi dei depositi lacustri tale da poter risalire alle condizioni climatiche dell’area nel corso dell’ultimo millennio (il manifesto, 10.8), la Russia, da mille anni, non ha mai subito un’ondata di caldo così lunga e così alta di temperatura.

Gli esperti in meteorologia e in dati climatici sostengono da anni che i fenomeni climatici anomali ci sono sempre stati e si verificheranno sempre, ma, sottolineano, il dato più preoccupante sta nel fatto che il cambiamento climatico sta aumentando l’intensità di questi fenomeni, e la loro durata. Mentre gli esperti raccontano queste cose e spingono i vari governi a considerarle seriamente perché intervengano – almeno per ciò che riguarda direttamente l’attività industriale dell’uomo, quanto a inquinanti dell’aria, dell’acqua e del terreno – sia sul piano della prevenzione che su quello dell’intervento d’emergenza necessario fin dai primi momenti in cui i fenomeni anomali si presentano, questi governi, a partire da quelli dei paesi più potenti del mondo e più responsabili dell’inquinamento generale del pianeta, litigano sulle percentuali di abbattimento dell’inquinamento atmosferico e sugli impegni che ciascuno di loro dovrebbe garantire in un determinato numero di anni al fine di abbattere sensibilmente il cumulo di inquinanti che l’attività dell’industrialismo capitalistico lancia giorno dopo giorno nell’aria che respiriamo. Impegni solenni sono stati presi da moltissimi paesi, ma non da quelli che, a dire di tutti, inquinano di più: Stati Uniti e Cina, e in ogni caso non si è registrato finora nessun dato confortante sul piano dell’abbattimento delle sostanze inquinanti. Si dirà: che c’entra tutto questo con gli incendi in Russia? Il fatto è che normalmente, vuoi per le alluvioni, vuoi per gli incendi, la pubblicistica borghese incolpa sempre  l’anomalia del fenomeno atmosferico: piogge torrenziali e al di sopra della norma, caldo torrido eccezionale, come causa principale dei disastri che da tali fenomeni si generano; in seconda istanza, arriva – ormai è diventata una noiosa nenia ripetitiva – il monito fatalista: se entro il 2020, il 2030, il 2050 non si inverte l’andamento dell’inquinamento atmosferico, riducendolo in modo consistente, la vita del pianeta, e dell’uomo che lo abita, subirà un colpo mortale dal quale difficilmente potrà rialzarsi… E lo stesso fatalismo riveste l’impotenza congenita di una società in cui si dà per scontata e inevitabile l’attività di delinquenza, di assassinio, di malaffare, di corruzione, di sopraffazione e di ingiustizia; come dire che se si mette in galera un incendiario, domani ce ne sarà un altro e un altro ancora…

Naturalmente tutti i buoni propositi dei borghesi illuminati dalle previsioni catastrofiche degli scienziati si vanno regolarmente a scontrare con ciò che alla classe borghese di ogni paese sta più a cuore: l’andamento economico del capitalismo nazionale, la redditività e la competitività delle aziende nazionali, la forza economica del paese grazie alla quale si mantiene, si aumenta o si diminuisce, il peso politico sul mercato mondiale. Il capitale non ha cuore, il capitale non ha cervello, ha però la proprietà di reiterare all’infinito – se non lo si ferma una volta per tutte – il meccanismo economico impiantato più di due secoli fa che spinge il suo modo di produzione ad una iperfollia produttiva sfruttando in modo selvaggio qualsiasi energia viva e rinnovabile (lavoro umano, terra, acqua, aria) e qualsiasi risorsa fossile e inorganica, al solo scopo di valorizzare se stesso in quanto capitale. Le catastrofi “naturali” o sociali, come la crisi economica, fanno parte integrante delle conseguenze del modo di produzione capitalistico e del suo sfrenato e incontrollabile sviluppo. Questo è ormai un dato certo e dimostrato anche agli occhi di un bambino. Non si può impedire all’industria capitalistica diffusa in  tutto il mondo, e concentrata particolarmente nei paesi già sviluppati (Europa, America e Giappone) e in quelli che stanno industrializzandosi in modo accelerato e inevitabilmente forsennato (Cina, India, Brasile e anche Russia) di procedere in questa cieca corsa allo sviluppo capitalistico e, quindi, alla valorizzazione del capitale. E non si può intervenire per regolamentare e “pianificare” lo sviluppo economico di ogni paese in funzione dei bisogni sociali e vitali della specie umana – dunque, produrre solo ciò che effettivamente serve per lo sviluppo civile degli uomini di tutti i paesi, produrre in modo sensato e appropriato eliminando ogni nocività, ogni elemento dannoso alla vita dell’uomo e dell’ambiente naturale, produrre per la vita e il futuro dell’uomo. Finché esisterà il modo di produzione capitalistico e, su di esso e sulle sue leggi votate esclusivamente alla valorizzazione del capitale e alla produzione di profitto, vi sarà una società il cui potere politico e militare, dunque economico e sociale, è in mano in modo esclusivo alla classe borghese, non sarà mai possibile fare un passo significativo in direzione di una società in cui i bisogni esclusivi dell’uomo e non del mercato siano punto di partenza e punto d’arrivo dello scopo della vita sociale.

Come in ogni paese capitalista che si rispetti, anche in Russia esistono lobby e multinazionali, in ogni campo economico e finanziario, che ne condizionano pesantemente la politica. Così il signor Vladimir Putin risulta il principale esecutore degli interessi delle lobby e delle multinazionali del legname che, grazie alla riforma del codice forestale voluta appunto da Putin nel 2006 quand’era presidente (ed entrata in vigore nel 2007), hanno avuto completa mano libera per sfruttare a loro piacere le foreste su cui hanno messo le mani. Il punto caratterizzante di questa riforma è il passaggio da un sistema di gestione e controllo delle risorse forestali centralizzato ad un sistema gestito dalle regioni; insomma, un federalismo delle foreste che farebbe invidia alla Lega nostrana che lo vorrebbe in ogni campo, a cominciare da quello fiscale. Foreste e boschi in Russia rappresentano circa il 22% del patrimonio forestale di tutto il pianeta; si tratta di una superficie di circa 809 milioni di ettari (una superficie due volte più grande dell’Unione Europea). Questa riforma è andata incontro, ovviamente, agli interessi delle grandi lobby del legname, nelle quali emerge in particolare la multinazionale Ilim Group che è stata fra le principali  aziende che hanno forzato la mano a Putin e compagnia perché quella riforma fosse varata. Tale riforma, infatti, ha in realtà permesso alla Ilim Group e alle altre aziende interessate all’industria del legno, di stringere i rapporti ancor più strettamente con le autorità locali – più facilmente addomesticabili e forse meno costose – affinché si accelerasse un metodo già sperimentato: tagliare velocemente gli alberi, fare i soldi e spostarsi immediatamente di zona. Questo nuovo codice forestale, inoltre, ha permesso allo Stato centrale di abbattere circa 70.000 posti fra le guardie forestali che avevano il compito, fra le altre incombenze, di fare da vedette antincendio; guardie che non sono state sostituite localmente. Come ciliegina sulla torta, il manifesto del 10 agosto aggiunge che il colosso dei legnami Ilim Group è una multinazionale russo-americana, nata da una joint venture rispettivamente al 50% fra la russa Ilim holding e la statunitense International Paper, che è la più grande azienda mondiale nella produzione di carta e cellulosa, che ha avuto in passato l’attuale presidente russo, Dmitry Medvedev, come capo del dipartimento legale di questo colosso. E così il cerchio della cricca russa si chiude perfettamente.

Gli incendi che hanno distrutto anche milioni di ettari coltivati a grano, orzo ecc. hanno provocato danni ingenti ai raccolti agricoli, tanto che Putin ha dovuto annunciare il blocco delle esportazioni di grano da parte russa almeno fino a dicembre 2010. Ciò naturalmente ha immediatamente innescato un processo di speculazione sulle quotazioni  del grano a livello mondiale, tanto che al Chicago Board of Trade la quotazione del cereale è salita del 3,9% (andando a 681,25 cents per bushel) e potrebbe salire ancora, soprattutto dopo che il governo russo ha lasciato intendere che avrebbe bisogno di importare grano per almeno 5 milioni di tonnellate per assicurare il fabbisogno interno e per non abbattere le riserve nazionali. E’ dal 1998 che la Russia non importava più grano, ma lo esportava, e se si aggiungono i disastri provocati anche in Pakistan dalle recenti alluvioni nel Punjab, la richiesta di grano sul mercato mondiale si alzerà di molto con grande soddisfazione degli speculatori di borsa e degli altri esportatori di grano come il Kazakhstan, l’Ucraina, l’Australia e gli Stati Uniti, e degli esportatori d’orzo europei (i dati sono ripresi da Il Sole 24 Ore, 20.8). E ciò dimostra per l’ennesima volta che nel capitalismo ogni sciagura se ne porta appresso un’altra, quella del rialzo dei prezzi dei generi di prima necessità, colpendo sempre e soprattutto le condizioni di vita proletarie. Mentre le foreste e i campi russi bruciano, nella Borsa di Chicago e di Londra c’è chi si frega le mani e ride, come fecero i faccendieri italiani intercettati casualmente dalla magistratura nei giorni del terremoto a l’Aquila pensando agli affari d’oro della ricostruzione.

La Russia brucia, ma non a causa di lotte sociali di cui il proletariato finalmente si è reso protagonista con l’obiettivo di farla finita una volta per sempre con una società che da più di un secolo e mezzo genera soltanto morte, miseria, fame per la maggioranza della popolazione umana. Oggi si deve ancora registrare, purtroppo, l’assenza del proletariato sul terreno della lotta di classe, l’unica che può dare l’avvio ad una soluzione generale dei mali di questa società, nella prospettiva di rivoluzionare da cima a fondo l’intera società, con tutta la violenza che sarà necessaria per opporsi alla straordinaria violenza con cui questa società si mantiene in piedi, fino allo sbocco finale della società senza classi, del comunismo.

Certo, le forze della natura non potranno essere imbrigliate nemmeno nella società comunista che, all’opposto della società capitalista, sarà organizzata in funzione della soddisfazione dei bisogni di vita delle generazioni umane che si susseguono e di rapporti organicamente armoniosi con la natura. Non si può affermare che nella società comunista non ci saranno mai più alluvioni o incendi, ma l’uomo saprà che essi sono provocati da effettivi eventi naturali (terremoti, eruzioni vulcaniche, cedimenti di costoni rocciosi o altri fenomeni simili) rispetto ai quali avrà saputo prendere tutte le misure di precauzione utili, tra le quali primeggeranno quelle relative alla disposizione degli agglomerati abitati razionalmente distribuiti sul territorio risolvendo l’antagonismo fra città e campagna caratteristico della società del capitale, e quelle relative allo studio e alla conoscenza scientifica della vita sulla terra ai quali sarà data la massima apertura e fornite tutte le risorse necessarie perché la scienza, come qualsiasi altra attività umana, non sarà più dipendente dalla spasmodica ricerca di profitto capitalistico, ma sarà finalmente liberata completamente da questo soffocante vincolo economico e politico. E’ il capitalismo, con tutta la rete di interessi privati e di privilegi di classe, che sarà sepolto definitivamente, liberando l’uomo allo sviluppo delle conoscenze e di una vita armoniosamente progrediente in un mondo in cui il maggiore antagonista non sarà più una classe sociale opprimente che monopolizza, pur essendo minoritaria, la vita e la morte della stragrande maggioranza della popolazione umana, depredando selvaggiamente le risorse che la natura offre alla vita umana, ma la forza della natura di cui finalmente si potrà sviluppare una conoscenza che finora, costretta com’è a rendere esclusivamente profitto capitalistico, non ha superato e non può superare i limiti della preistoria dell’uomo.  

 

 

          

Partito comunista internazionale (il comunista)

18 agosto 2010 - Supplemento a «il comunista» n. 117

www.pcint.org

 

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