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Egitto: Moubarak e' caduto, il regime capitalista e lo stato borghese restano

 

 

Suscitando l'esultanza dei manifestanti, Hosni Moubarak ha dunque annunciato le proprie dimissioni, rimettendo il potere all'esercito. Colui che solo fino a qualche ora prima si pronunciava a difesa della costituzione e la barriera contro il "caos", ha così aperto la via ad una sorta di colpo si Stato a freddo (secondo la costituzione, è il presidente del parlamento che avrebbe dovuto rilevare temporaneamente il potere). Tutte le dichiarazioni e le manovre del governo non hanno potuto impedire gli scontri e le manifestazioni che si sono susseguiti in Egitto per 18 giorni. Venerdì 11 febbraio, folle ancor più massicce di quelle che nei giorni precedenti hanno invaso le strade del Cairo e delle altre grandi città. Le dichiarazioni del "Raìs" con le quali affermava di cedere il potere al suo vicepresidente, e capo dei servizi segreti!, Omar Suleiman, non sono servite a nulla.

Dopo le prime manifestazioni che raccoglievano qualche migliaio di persone, soprattutto giovani della piccola borghesia mobilitatisi attraverso i social network, gli "esperti del mondo arabo" e altri "commentatori bene informati" spiegavano dottamente che il regime di Moubarak era solido e che una situazione alla tunisina era impossibile in Egitto. L'irruzione di decine di migliaia di manifestanti provenienti dai quartieri popolari del Cairo nelle manifestazioni dal 26 al 28 gennaio ha completamente cambiato la situazione. Non era più soltanto al Cairo, ma anche nelle altre grandi città egiziane, che masse gigantesche sono scese nelle strade a gridare il loro odio per il potere, mettendo in crisi, per il loro grande numero, i poliziotti.

Non c'è stato verso: né l'oscuramento delle reti internet e della telefonia mobile, né la censura dei media, né la ferocia della repressione (sono più di 300 i morti all'inizio di febbraio), né le mezze concessioni di Moubarak, nulla ha potuto frenare questa potente ondata originata dalle condizioni di vita sempre più miserabili delle masse proletarizzate. Per i circoli dirigenti della borghesia egiziana, come per quelli degli altri paesi arabi della regione e gli imperialismi americani ed europei, la questione era come fare a contenere la tremenda collera che si esprime nelle strade e nelle piazze d'Egitto, e come evitare che la rivolta si trasformasse in insurrezione, se non addirittura in rivoluzione.

Tanto più che negli ultimi giorni si è manifestato un nuovo fattore, e inquietante per i capitalisti: l'entrata in lotta della classe operaia. Hanno cominciato a circolare degli appelli per uno sciopero generale; i primi scioperi sono stati segnalati nei giorni precedenti la partenza di Moubarak. Il 10 febbraio decine di migliaia di lavoratori erano in sciopero segnando l'ondata di scioperi più importante dai movimenti di sciopero nel settore tessile del 2007-2008, duramente repressi. Scioperi sono scoppiati in differenti settori, nei trasporti pubblici al Cairo e nelle ferrovie; nella zona del Canale di Suez 3000 operai del petrolio si mettevano in sciopero; nella regione industriale d'Egitto, il delta dove è situata la maggior parte dell'industria egiziana, si segnala uno sciopero di 4000 operai nella fabbrica chimica Al Nasr a Helwan, di 2000 operai (soprattutto operaie) nella fabbrica tessile della stessa città, 2000 anche nella fabbrica Sigma Pharmaceuticals di Quesna; a Al Mahalla, la capitale dell'industria tessile, epicentro delle lotte del 2007-2008, uno sciopero generale illimitato era iniziato il 10 febbraio alla Mirs Spinning and Weaving Textils Factory, la più grande fabbrica d'Egitto, che impiega 24000 persone. Le rivendicazioni erano incentrate sui salari (molto bassi, il salario minimo è di 70 dollari mensili), sul miglioramento delle condizioni di lavoro, assunzione definitiva a tempo indeterminato dei lavoratori precari ecc.

Tutti questi scioperi, di cui non abbiamo probabilmente che una piccolissima idea, sono scoppiati indipendentemente dal sindacato ufficiale la cui funzione, evidentemente, è di mantenere la pace sociale e impedire le lotte operaie. Anche se parziali, questi scioperi sono di buon augurio per l'avvenire, a condizione che i lavoratori riescano a organizzarsi su basi di classe, indipendentemente non soltanto dagli apparati sindacali venduti ai borghesi, ma anche dai democratici che pretendono di essere loro amici.

 

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Mentre l'Arabia Saudita e l'Autorità Palestinese, spaventate mortalmente dal movimento di massa, hanno immediatamente dichiarato il loro sostegno a Moubarak, il governo americano ha moltiplicato le pressioni per una "transizione politica e pacifica", cioè perché egli ceda il posto, solo modo per prevenire scontro dai rischi incalcolabili:  la valvola Moubarak doveva saltare per proteggere il capitalismo dalle scariche ad alta tensione che uno scatenamento della lotta di classe nel più grande paese del Medio oriente non avrebbe mancato di produrre, con i contraccolpi in tutta la regione. In seno al regime, gli alleati più vicini di Moubarak hanno senza dubbio accarezzato l'idea di una alternativa all'iraniana o alla cinese: l'annientamento della contestazione, dopo che l'inevitabile stanchezza avesse almeno momentaneamente calmato l'ardore dei manifestanti. I circoli borghesi più influenti, che sono più rappresentati fra i capi militari, come l’imperialismo americano, hanno considerato questo scenario troppo rischioso.

L'esercito egiziano è stato rapidamente mobilitato per canalizzare la folla, proteggere gli edifici, i beni e i servizi essenziali, lasciando che la polizia si sporcasse le mani nella repressione. Completamente assenti dalle prime grandi manifestazioni, i Fratelli Musulmani, la sola forza d'opposizione importante che il governo ha lasciato svilupparsi, hanno tentato di prendere il treno in marcia: il loro ruolo sarà insostituibile domani per mantenere l'ordine borghese. Oggi, i capi militari, dopo aver annunciato la dissoluzione del parlamento e la sospensione della costituzione, promettono il ritorno del potere ai civili in 6 mesi; nel frattempo elaboreranno una nuova costituzione. Quali che siano le forme che prenderà il cambiamento di regime, il potere politico borghese resta intatto in Egitto; peggio, l'Esercito, il principale sostegno di questo potere, risorge momentaneamente con l'aureola di questa transizione. 

Ma i proletari egiziani apprenderanno velocemente, se non se ne avvedono ancora, che è contro di loro che si mobiliteranno i successori di Moubarak, che è su di loro che si abbatterà nuovamente la repressione della polizia e dell'esercito, e che per difendere i loro interessi essi dovranno lottare solo con le proprie forze, senza i piccoloborghesi democratici e nazionalisti che, anzi, se li troveranno contro. In Tunisia, dopo che Bel Alì è stato cacciato, un nuovo governo, diretto dallo stesso primo ministro di prima, è stato incaricato di coprire il vuoto di potere affinché nulla di essenziale cambi: la polizia ha espulso brutalmente i manifestanti presenti ancora nelle strade e nelle piazze di Tunisi, e continua a sparare sulla folla (ci sono stati 2 morti ancora il 4 febbraio), i capitalisti continuano a sfruttare mentre i politicanti si preparano alla futura farsa elettorale, coronamento agognato del ristabilimento e del rafforzamento dell'ordine borghese. E in questi giorni, migliaia di profughi tunisini, imbarcatisi sulle solite "carrette del mare", stanno raggiungendo Lampedusa, Linosa, Pantelleria, insomma l'Italia, per sfuggire alla fame, alla miseria e alle vendette dei pretoriani di Ben Alì. Ciò dimostra che non basta espellere dai palazzi del potere un Ben Alì, un Moubarak o un Bouteflika perché sia avviata una politica economica e sociale in grado di soddisfare le esigenze di vita delle masse proletarie e proletarizzate di questi paesi. L'ordine borghese, l'ordine in difesa degli interessi  del capitalismo sarà ristabilito attraverso altre forze politiche, magari provenienti dalla cosiddetta "società civile", ma soprattutto attraverso le forze armate!

Ciò avverrà inevitabilmente anche in Egitto. Fin d'ora il Consiglio militare supremo sembra voglia vietare ogni riunione organizzativa operaia o dei sindacati, vietando così di fatto gli scioperi, lanciando un appello per la ripresa del lavoro. Il periodo che si sta aprendo sarà quello delle lotte operaie e i proletari egiziani avranno bisogno ancor più della loro determinazione e della solidarietà dei loro fratelli di classe degli altri paesi.

Ebbene, una pagina si sta girando e non soltanto nei paesi arabi. Scosso da una crisi economica senza precedenti, l'ordine capitalistico mondiale lascia apparire un po' dappertutto le sue crepe. La nuova pagina che si apre sarà quella del ritorno inevitabile della lotta proletaria, non soltanto nei paesi cosiddetti "periferici", ma anche nei paesi capitalisti "centrali" più ricchi dove le conseguenze della crisi hanno potuto essere largamente ammortizzate.

Ciò non  succederà in un giorno, bisognerà spendere molti sforzi e superare molte difficoltà per resistere alla repressione, sventare le false alternative borghesi, per stabilirsi fermamente nella via della lotta di classe e per costituire l'organo dirigente indispensabile della lotta proletaria rivoluzionaria, il partito comunista mondiale; ma se questi sforzi riuscissero, sboccheranno sulla riapparizione dello spettro del comunismo. Sarà allora possibile scrivere nuovamente:

 

Che i borghesi di tutti i paesi tremino all'idea della rivoluzione comunista!

I proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare!

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

13 febbraio 2011

www.pcint.org

 

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