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A Lampedusa, tra intolleranza, odio di classe e spirito solidale degli isolani

 

 

La crisi economica che affama da anni le masse dei paesi nordafricani e del Medio Oriente, e che è stata alla base delle rivolte nei paesi arabi di questo inizio 2011, non poteva che avere per conseguenza la fuga dalla miseria, dalla fame, dalla repressione dei governi e dalla guerra, di masse sempre più numerose verso i ricchi paesi europei.

Il capitalismo, nel suo frenetico sviluppo alla ricerca spasmodica di profitto, mentre trascina con sé lo sviluppo economico nelle aree di maggior interesse per i grandi trust capitalisti d’Europa e d’America (ai quali si stanno aggiungendo capitali cinesi e sudamericani in una corsa ad accaparrarsi una fetta delle gigantesche risorse naturali di cui è ricco il continente africano e i territori del Vicino e Medio Oriente) genera inesorabilmente un tendenziale aumento della povertà e della miseria di masse sempre più vaste. I media e le leggi borghesi chiamano emigrazione il flusso di persone che si spostano dal proprio paese per cercare lavoro in un altro; in realtà questo spostamento non è per nulla volontario, è una fuga, determinata dalla ricerca di una sopravvivenza negata nei territori natali. Lo sviluppo del capitalismo, con la distruzione dei rapporti economici e sociali tribali e comunitari precedenti, con l’acutizzazione della concorrenza e la violenta espropriazione di terre e risorse naturali, non lascia alternative: espulse dai campi e dai villaggi, masse di contadini vengono urbanizzate a forza. A fianco dei nuovi palazzi e delle residenze signorili nascono e crescono senza fine sobborghi fatiscenti in cui si accalcano masse umane ridotte a braccia da sfruttare e bocche da sfamare. Masse di uomini, donne, vecchi e bambini che, a loro volta, concentrate in spazi sempre più ristretti e destinate a sopravvivere soffocandosi gli uni con gli altri in una sorta di guerra continua alla ricerca quotidiana di uno sprazzo di vita, si trasformano poi in forze che premono sui rapporti economici e sociali capitalistici e sui tremendi vincoli repressivi che ne imprigionano i movimenti. La loro rivolta tesa a rompere le condizioni inumane in cui sono costrette, a rompere i recinti, sebbene invisibili, di quella che è una vera prigione in cui condurre tutta la loro vita, è l’atto fisico inarrestabile nel quale si esprime il fallimento totale del capitalismo e della società borghese che si erge su di esso.

La classe borghese dominante e gli strati piccolo-borghesi ad essa legata, vivendo sullo sfruttamento delle masse proletarie e proletarizzate sempre più numerose, hanno tutto l’interesse a prolungare all’infinito questa situazione perché è dalla soggezione del proletariato e delle masse contadine povere che ricavano il loro benessere. In questa situazione di dominio sociale e del  necessario mantenimento nella completa soggezione di masse sempre più grandi e affamate, che di tanto in tanto si ribellano con violenza alle condizioni di violenta e perdurante oppressione, si genera l’odio di classe che la borghesia esprime a tutti i livelli e in tutti i campi – anche nelle più democratiche delle repubbliche – contro il proletariato e le masse diseredate: la divisione in classi contrapposte della società è ben rappresentata dall’organizzazione dello Stato, dalle sue forze militari di repressione, dalla sua burocrazia, dalle sue leggi, da una macchina statale che ha il compito di difendere gli interessi della classe dominante borghese.

La spinta naturale alla sopravvivenza porta necessariamente le masse proletarie e diseredate a fuggire dalla miseria e dalla morte in cui la crisi capitalistica le ha precipitate. E’ ciò che ha spinto le masse dei paesi arabi in rivolta in questi mesi e che ha dato loro la forza di affrontare a mani nude l’inevitabile repressione poliziesca che i regimi borghesi dei rispettivi paesi hanno scatenato contro di loro. Le cadute di Ben Alì a Tunisi e di Mubarak al Cairo non hanno “risolto” – né potevano risolverlo – il problema della crisi economica né il problema sociale che ne è derivato. Le masse di giovani proletari disoccupati sono rimaste tali, i contadini poveri sono rimasti poveri e affamati come prima, le pallide riforme che i nuovi governanti hanno promesso non sono in grado neanche lontanamente di portare un beneficio anche solo parziale alle loro condizioni. Quale via d’uscita a portata di mano possono vedere queste masse abbandonate al loro destino dai propri governanti, forzatamente calate nella miseria, se non l’emigrazione, o meglio, la fuga?

Dalla Tunisia, e ora anche dalla Libia in guerra, l’unica via di fuga è verso nord, verso l’Europa, attraversando il braccio di mare che porta in Sicilia, e in particolare all’isola di Lampedusa, la più vicina alle coste tunisine.

La classe dominante italiana, rappresentata oggi dal governo Berlusconi-Bossi, ha già dato più volte dimostrazione del proprio odio di classe verso il proletariato in generale e verso i proletari migranti in particolare. Bastano le leggi sull’immigrazione Turco-Napolitano, Bossi-Fini e la recente trasformazione dell’immigrato in clandestino, per non avere dubbi sulla dimensione dell’odio di classe che la borghesia nostrana esprime, non solo nei fatti, ma anche attraverso le sue leggi. E così, appena le rivolte in Tunisia e in Egitto hanno cominciato a sconvolgere la loro stabilità di regime, i nostri governanti hanno insistentemente lanciato allarmi su quella che hanno chiamato “bomba immigrazione” che sarebbe arrivata sulle coste italiane. Con la guerra scoppiata in Libia, l’allarme non poteva che aumentare. E in effetti, nonostante le marine militari di Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia siano presenti con numerose navi nel Mediterraneo meridionale di fronte alle coste libiche, le carrette del mare zeppe di migranti, per la maggioranza tunisini, ma anche somali, eritrei, etiopi, nigeriani ai quali si sono aggiunti negli ultimi giorni anche libici, stanno raggiungendo le coste italiane, e soprattutto Lampedusa.

Lampedusa, che negli anni si è sempre dimostrata un’isola predisposta all’accoglienza, è stata di fatto trasformata in una gigantesca prigione a cielo aperto dove ammassare, e trattenere, le masse di migranti provenienti dal nord Africa. Il governo italiano ha evidentemente interesse ad alimentare l’odio verso il migrante, verso lo straniero, creando appositamente una situazione insostenibile nell’isola sia per i profughi migranti che per i residenti.

Così si è arrivati a trattenere nell’isola quasi 6.000 migranti (alla data 28.3.2011) accampati in qualche modo in ogni dove; 6.000 persone che non hanno da mangiare, da bere, da vestire o un riparo dove dormire e che sono costretti in situazioni igieniche spaventose; persone che, in attesa di essere collocate in ambienti più decenti, da giorni vagano per l’isola tutto il giorno e dalla quale, ovviamente non sono più in grado di spostarsi sulla terra ferma se non per mezzo dei trasporti stabiliti dal Ministero dell’Interno quando questo lo deciderà. Dunque, queste persone, dopo essere state classificate genericamente clandestini e praticamente imprigionate nell’isola di Lampedusa, verranno deportate in altri siti, adeguatamente preparati perché non sfuggano ai controlli di polizia. I profughi migranti sono così trasformati in prigionieri da ingabbiare in lager chiamati Centri di identificazione ed Espulsione!

La società borghese tunisina, egiziana, libica, eritrea, etiope, somala o nigeriana li ha costretti a fuggire dalla miseria e dalla fame e, spesso, dalla repressione e dalla guerra; la società borghese italiana li costringe, prigionieri, a sopravvivere in condizioni egualmente disperate fino a quando verranno rimandati ai paesi d’origine e da cui tenteranno per l’ennesima volta di fuggire. Il capitalismo riserva ai proletari dei paesi della periferia dell’imperialismo una vita di stenti e di disperazione; ma la vita che questi proletari, in fuga dalla miseria e dalla fame dei loro paesi, trovano nei ricchi paesi europei non è la vita migliore che si illudevano di trovare e che le trasmissioni televisive che facilmente si ricevono in tutti i paesi del Mediterraneo fanno vedere. La rabbia che li ha spinti a ribellarsi ai regimi dei loro governi e che li ha spinti e li spinge a rischiare la fuga verso l’Europa non è ancora la rabbia che può alimentare quel sano odio di classe col quale rispondere al secolare odio di classe che la borghesia somministra a piene mani nelle sue manifestazioni di razzismo come nelle sue pratiche economiche e sociali, e che le serve per continuare a schiacciare i proletari di ogni paese nelle condizioni di schiavitù salariale.

La via d’uscita dalla disperazione di una vita non vissuta, stroncata già nell’età giovanile, di masse sempre più numerose di proletari destinati a versare sudore e sangue nel lavoro salariato e nella disoccupazione, è la via dell’organizzazione di classe che i proletari prima o poi sono obbligati a formare perché sperimenteranno che sarà quello l’unico modo per potersi efficacemente difendere dalla pressione e dalla repressione borghese. La via è quella di lottare non solo per la sopravvivenza quotidiana individuale, ma per la difesa di interessi che superano l’ambito spontaneo e immediato e che accomunano i proletari proprio per le loro condizioni di schiavi salariati; è quella di lottare contro la concorrenza fra proletari alimentata coscientemente e continuamente dai borghesi, perché attraverso questa concorrenza fra proletari i borghesi mantengono il loro predominio politico e sociale e indeboliscono ogni possibile reazione proletaria. La via d’uscita non può che essere di lotta, e di lotta fatta con mezzi e metodi di classe, ossia con mezzi e metodi che rompono con le pratiche del legalitarismo, del democratismo, del pacifismo, della conciliazione fra borghesi e proletari e che mettono al centro della lotta la difesa degli interessi primari, economici, sociali e politici delle grandi masse proletarie. Il proletariato, ormai anche nei paesi capitalisticamente meno sviluppati, costituisce, insieme al contadiname povero, la maggioranza della popolazione: ma non è questa maggioranza che domina e governa sulla società, bensì la minoranza borghese capitalistica che possiede tutti i mezzi di produzione e di distribuzione e che si accaparra il prodotto del lavoro della stragrande maggioranza della popolazione. Se democrazia volesse effettivamente dire “governo del popolo”, non dovrebbe essere la minoranza borghese a governare… Ma il potere politico è questione di forza, non di diritto, ed è con la forza che la classe borghese lo ha conquistato e lo mantiene, organizzando, attraverso il suo Stato, l’oppressione di tutte le altre classi.

A Lampedusa e in tutti i Centri di Identificazione ed Espulsione, come in ogni campo di pomodori e in ogni cantiere, i proletari immigrati, dopo aver assaggiato la frusta nei propri paesi d’origine, assaggiano le delizie delle democrazie occidentali e guardano alla civiltà dei diritti dalla loro condizione di clandestini perenni, di reietti, di sfruttati bestialmente per un tozzo di pane, di schiavi cacciati sistematicamente al gradino più basso che esista nella società: il capitalismo concede solo a pochi di “elevarsi” dalla condizione di miseria e di fame, di solito trasformando quei pochi in guardiani prezzolati della massa proletaria da cui hanno cercato di “emergere”; e coloro che non hanno trovato lavoro più o meno regolare come schiavi salariati sono destinati all’emarginazione più dura o alla delinquenza. E questa è la civiltà dell’odio di classe alla quale i profughi di tutti i paesi e di tutte le guerre accedono!

La lotta di classe che il proletariato, non solo europeo, ma di tutto il mondo, ha già conosciuto nel secolo scorso grazie ai moti rivoluzionari seguiti alla fine della prima guerra imperialistica mondiale e grazie alla vittoriosa rivoluzione proletaria e comunista in Russia nell’ottobre 1917, è stata ricacciata nell’oblio dalla forza della controrivoluzione che, sconfitto il movimento rivoluzionario mondiale, ha radicato nel proletariato dei paesi sviluppati, e quindi anche nel proletariato dei paesi meno avanzati, abitudini e pratiche collaborazioniste e interclassiste che hanno finora spezzato ogni tentativo di riconquista del terreno di classe da parte proletaria. Ma la crisi capitalistica e le rivolte come quelle che stanno sconvolgendo i paesi arabi sono di buon auspicio: i proletari saranno inesorabilmente spinti a lottare per difendere se stessi, le proprie condizioni di sopravvivenza e i propri interessi di classe, al di sopra della frammentazione in cui le borghesie di ogni paese li precipitano e al di sopra della concorrenza fra stranieri. Allora, nella dura e accidentata ripresa della lotta di classe, i proletari avranno gli elementi oggettivi e di esperienza  per riconoscere  anche il partito politico di classe, la sola guida che può condurre la loro lotta dal terreno immediato a quello politico generale per rivoluzionare da cima a fondo una società che offre alla stragrande maggioranza degli uomini che abitano il pianeta niente di più che miseria, fame, sfruttamento, disperazione, guerra. Lampedusa, oggi, è come una finestra su ciò che i proletari di ogni paese si possono aspettare dalla società capitalistica: le illusioni sul miglioramento delle condizioni di vita cadono miseramente per i proletari profughi che sono sbarcati come per i proletari italiani.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

29 marzo 2011

www.pcint.org

 

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