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Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                        


 

La “primavera araba” è finita, le illusioni di cambiamento si sono liquefatte, e di fronte alle masse proletarie e proletarizzate dei paesi arabi resta la realtà del potere capitalistico, del tallone di ferro degli Stati borghesi e dell’imperialismo.

La via d’uscita è solo nella lotta proletaria di classe!

 

 

L’arco della crisi nei paesi arabi ha toccato la Siria, ed è ancora massacro!

La spinta della rivolta delle masse contro il regime di Assad, impigliatasi nelle illusioni di una democrazia imbelle, continua a scontrarsi con la spietata repressione con cui il regime, difendendo il suo potere e i suoi privilegi, ha difeso finora anche gli interessi dell’imperialismo mondiale.

La ribellione di massa non è la prima volta che esplode in Siria. Nel 1982, la città di Hama, a nord di Damasco, durante una vera e propria sollevazione di massa contro il regime di Assad padre, fu da questo rasa al suolo con decine di migliaia di vittime. Era l’epoca dell’invasione  di Israele in Libano e della resistenza palestinese a Beirut, che terminò con la sconfitta definitiva dei palestinesi. La sollevazione di Hama e la sua spietata repressione elevò la città di Hama a “città-martire”, città-simbolo della ribellione al regime degli Assad per antonomasia. Ed oggi, assediata dai carri armati dell’esercito siriano, rischia nuovamente di offrire alla repressione statale un altissimo tributo di sangue.

Non si è trattato allora, e non si tratta nemmeno in questi mesi, di rivolte a carattere religioso, ma di rivolte popolari contro una crisi sociale profonda che ha scosso violentemente una pace sociale mantenuta negli anni da un regime che ha militarizzato l’intero paese fin dal 1963 e che è governato, dal 1970, in modo ereditario, dalla famiglia Assad. La legge marziale, in vigore dal 1963, mantenuta e rafforzata dagli Assad, è sempre stata giustificata col pericolo di guerra con Israele (che si è annesso il Golan siriano, dopo averlo occupato nella guerra dei Sei giorni del 1967)  e col pericolo del “terrorismo islamico”. Ma, nei paesi del Medio Oriente, il potere delle borghesie locali se non può fare a meno del sostegno esterno di uno o più paesi imperialisti, non può nemmeno fare a meno del sostegno delle autorità religiose locali; come esistono concorrenza e scontri di interesse tra poteri capitalistici, così esistono anche tra le diverse branche religiose. In Siria, al potere dal 1970 c’è la minoranza sciita-alauita, di cui fanno parte gli Assad, mentre la maggioranza della popolazione è di religione islamico-sunnita. Le differenze religiose, come sempre, sono usate per il controllo sociale anche in regimi come quello siriano (e com’era quello di Saddam Hussein in Iraq) che, pur avendo scritto sulla propria bandiera: “Dio ti protegga, o Siria”,  hanno una connotazione laica. Ciò però non impedisce alla Siria degli Assad di avere il sostegno dell’Iran degli ayatollah e di sostenere a sua volta gli Hezbollah in Libano.

 

Il ruolo della Siria nella regione, da quando il partito Ba’th si è saldamente installato al potere a metà degli anni Sessanta del secolo scorso, è stato di veicolare, fino all’implosione dell’URSS, l’influenza sovietica nell’area facendo da contrappeso all’influenza europea e statunitense che potevano contare dal 1948 in poi su Israele e, fino al 1979 – epoca della caduta dello Scià Reza Palhevi – sull’Iran. Da quarant’anni la Siria è governata col tallone di ferro col quale la borghesia nazionale guidata dagli Assad ha cercato di assicurarsi, da un lato, una certa compattezza nazionale in funzione anti-israeliana e, al contempo, in funzione delle proprie mire espansionistiche verso il Libano (un tempo vecchia provincia siriana), e, dall’altro, un certo sviluppo economico, anche industriale, del paese e, soprattutto, lo sfruttamento di operai e contadini col minimo di conflitti sociali. Gli è che i conflitti sociali non si possono soffocare del tutto per decenni, ed è così che nel 1982, in corrispondenza dell’invasione del Libano da parte di Israele e dello sforzo bellico della Siria per contrastarla, in diverse zone del paese scoppiano ribellioni e rivolte, fino alla tragedia più grande, come ricordiamo sopra, della città di Hama. Ed è così che,  dall’inizio di quest’anno, un vero terremoto sociale ha interessato tutta l’area dei paesi arabi del Nord Africa e del Medio Oriente riportando sull’avanscena la collera di gigantesche masse che si ribellano a condizioni di esistenza intollerabili.

E’ certo che anche in Siria, per quel che raccontano le cronache giornalistiche e per quel che non raccontano, la dura situazione sociale delle masse proletarie e proletarizzate, che si scontrano con un rialzo insostenibile dei prezzi dei generi di prima necessità, è alla base della pressione con la quale tentano di ottenere un cambiamento di regime. La repressione finora sembra che abbia provocato più di mille morti, e non  si contano i feriti, mentre ha determinato la fuga di migliaia di profughi verso il Libano e verso la Turchia.

Nei giorni scorsi l’ambasciatore francese Chevallier e il nuovo ambasciatore americano appena insediatosi Robert Ford, sono andati separatamente a “rendere omaggio” proprio alla città-martire di Hama, dalla quale hanno fatto dichiarazioni critiche verso Bashar Al Assad. In risposta, una folla di attivisti del partito Ba’th e di mercenari del regime (gli “shabiha”), a Damasco, è stata lanciata contro le ambasciate di Francia e degli Stati Uniti senza che le forze armate o di polizia siriane facessero nulla per fermarne l’assalto. La tensione tra Siria e questi due paesi si è alzata notevolmente: la Siria accusa Parigi e Washington di sobillare la rivolta nel paese, mentre la Siria viene accusata di reprimere le manifestazioni popolari con spietata brutalità. In realtà, hanno ragione entrambi.

 

Il fatto è che Parigi, Washington, ma anche Roma, Londra, Berlino, col regime di Bashar Al Assad, sebbene criticato per la violenta e continua repressione delle ribellioni che stanno punteggiando tutte le città del paese, avevano ripresi gli affari e le relazioni, sebbene tra alti e bassi; in ogni caso, quel che non desiderano le cancellerie delle potenze imperialistiche è che il terremoto sociale iniziato in Tunisia ed Egitto nei mesi scorsi si allarghi a macchia d’olio in tutto il Medio Oriente. A queste cancellerie non è mai importato nulla dei morti della repressione di un Assad in Siria o di un Saleh in Yemen, di un Mubarak in Egitto o di un Ben Alì in Tunisia, di un Gheddafi in Libia o di un Buteflika in Algeria; se battono la grancassa dei “diritti umani” e dei “diritti democratici” lo fanno esclusivamente per propaganda e per far dimenticare in qualche modo il sostegno dato ai regimi aguzzini di quei paesi fino al giorno precedente! Da esperti di repressione nei propri paesi e nei paesi colonizzati, sanno perfettamente che per “mantenere l’ordine” – il loro ordine borghese -  giunge il momento di essere spietati con tutti coloro che si ribellano all’ordine costituito, peggio se si ribellano in massa. Alle cancellerie imperialistiche importa che in ogni paese la “pace sociale” sia garantita dai suoi governanti, anche con i carri armati, perché le relazioni e gli affari scorrono veloci e più copiosi in assenza di conflitti sociali; ma se i governanti locali non ce la fanno con i propri eserciti e le proprie polizie, possono sempre intervenire le forze armate della “comunità internazionale”, cioè dei paesi imperialisti che hanno in mano le sorti del mondo, come è successo in Somalia e in Iraq, nei Balcani e in Libano, e come ora sta succedendo in Afghanistan e in Libia. Quando mai l’intervento militare dei paesi imperialisti è stato “risolutore” delle crisi, portando pace e prosperità per le masse? Al contrario, esso ha piuttosto incancrenito situazioni di crisi e di conflitti tra le diverse fazioni borghesi interessate, ognuna delle quali, come sciacalli, vuole assicurarsi una parte di potere locale, contribuendo in questo modo al permanere dei fattori di instabilità e di conflitto nei paesi che l’intervento imperialistico pretendeva di “pacificare”.

Sta di fatto che le notizie che giungono non solo dalla Siria, ma da ognuno dei paesi arabi scossi dalle rivolte sono sempre più scarne e incomplete. Et pour cause!

Alle potenze imperialistiche d’Europa e d’America interessa diffondere l’idea che la loro democrazia è il valore universale cui tutti devono essere interessati, re e sudditi, capitalisti e lavoratori salariati, contadini e studenti, intellettuali e affamati, profughi di guerra e miserabili delle periferie metropolitane; e che il “diritto di vita e di morte” di cui, di fatto, si fanno portatrici ufficiali – attraverso gli armamenti sempre più sofisticati e distruttivi – è giustificato da quel valore universale che il progresso capitalistico, come in un soffio divino, ha loro donato perché lo diffondessero in tutto il mondo...

La realtà è ben diversa, e lo stanno dimostrando proprio le rivolte delle masse lavoratrici e affamate dei paesi arabi. Dalla Tunisia, da dove ha preso il via la rivolta sociale, alla Siria che in queste ultime settimane è al centro dei conflitti sociali, è stato ed è tuttora un continuo ribollire di situazioni in cui le condizioni sociali della stragrande maggioranza delle popolazioni continuano a spingere le masse contro i vecchi e i nuovi regimi al potere. Non in tutti i paesi è avvenuto o avviene lo stesso svolgimento sociale; in Tunisia, in Egitto, in Yemen è certo che le masse proletarie e proletarizzate sono state il fulcro e il cuore delle rivolte, diventando un vero e proprio detonatore per tutta l’ampia area dei paesi arabi, mentre in Libia, nei paesi del Golfo e ora in Siria è molto probabile che le masse proletarie e proletarizzate, oggettivamente spinte da condizioni materiali intollerabili, si siano mosse su binari in qualche modo preordinati dalle forze politiche  in opposizione agli attuali governanti divenendo inconsciamente massa di manovra, e carne da macello, per perseguire interessi particolari della tale o tal altra fazione borghese a sua volta legata ad interessi del tale o tal altro polo imperialistico regionale o mondiale. Come spiegare altrimenti il fatto che la cosiddetta “protezione dei civili” in Libia ha giustificato la spedizione militare della Nato ancora in corso, mentre il devastante embargo israeliano a Gaza che mette alla fame 1 milione e mezzo di abitanti non fa muovere un dito a nessun grande paese, come non interessa né a Parigi, né a Londra o a Washington che in Bahrein si continuino a massacrare gli sciiti e in Yemen si persegua una repressione senza limiti. Vi sono, in realtà, aggrovigliati interessi interimperialistici e privilegi di casta radicati in molti decenni, per i quali conta soprattutto la salvaguardia del business finanziario e delle posizioni strategiche che il terremoto sociale in tutta l’area ha messo in discussione e per le quali gli imperialisti più aggressivi stanno affilando i propri artigli facendone fare le spese alle stesse masse che hanno osato ribellarsi contro “l’ordine costituito”!

 

In Tunisia, dove sembrava che l’agognato “cambiamento” doveva portare finalmente nuove prospettive di lavoro e nella vita sociale, i media stanno già parlando di “controrivoluzione”. In Egitto, l’esercito ha preso saldamente il potere in mano, ha rinviato le elezioni a dicembre, interviene reprimendo le manifestazioni di piazza come prima faceva la polizia, ha vietato gli scioperi ma ha dovuto, nel contempo, per ottenere un po’ di consenso da parte della popolazione, arrestare oltre 700 poliziotti rei di “essere compromessi col vecchio regime di Mubarak”… come se l’esercito non lo fosse! In Algeria la protesta sotto sotto cova ma non esplode, pur esprimendosi con degli scioperi, come nel caso della compagnia nazionale Air Algérie, soffocati, pare, con decine di licenziamenti. In Marocco, il tentativo di riforma costituzionale sembra abbia calmato per il momento il clima sociale, ma nulla è certo. Mentre in Libia la situazione che l’intervento militare della Nato avrebbe dovuto “risolvere” a favore degli insorti di Bengasi e della rapida destituzione di Gheddafi, non è giunta a nessun traguardo che gli imperialisti si erano prefissati; anzi, la tenace resistenza di Gheddafi e delle tribù che lo sostengono ancora, sta spingendo le potenze imperialistiche che bombardano Tripoli e dintorni a riconsiderare gli obiettivi della loro “missione”, tanto da attivare rapporti più o meno segreti da parte di Washington e di Parigi con emissari di Tripoli per valutare una “via d’uscita” dall’impasse in cui si è impiantata l’operazione “no fly zone” che, fin dall’inizio, al di là delle chiacchiere sui limiti formali posti dall’Onu all’intervento militare, aveva assunto la funzione di atto di guerra contro la Libia. Nel Golfo Persico, l’ondata di rivolta che in marzo e aprile ha messo a dura prova i regimi protetti dall’Arabia Saudita, sembra che si sia esaurita dopo la violentissima repressione dei movimenti di piazza in Bahrein e in Kuwait; stessa cosa per l’Oman che finora se l’è cavata con qualche concessione del Sultano e per gli Emirati Arabi che, dediti come sono da sempre esclusivamente al business finanziario, hanno dovuto accontentare la richiesta di Riad di sospendere i buoni rapporti con l’Iran per il quale gestivano il traffico finanziario a livello globale. In Yemen il presidente Saleh, ferito in un attentato e curatosi in Arabia Saudita, sta per rientrare a San’a col proposito di “chiudere la partita” con i rivoltosi: si prospetta dunque un probabile ulteriore bagno di sangue, che verrà “documentato”, come in tutti i fatti precedenti susseguitisi nei paesi arabi, dalla più libera e furba tv araba esistente, Al-Jazeera, che della documentazione, delle interviste e delle riprese sulle rivolte arabe ha fatto un eccezionale business a livello internazionale, mescolando spesso e volentieri fatti realmente accaduti con forzature e notizie inventate di sana pianta pur di lanciare scoop planetari e guadagnarci in sovrappiù.

 

Le rivolte nei paesi arabi, e le loro immediate conseguenze, hanno oscurato ciò che stava avvenendo sul fronte palestinese: Fatah e Hamas si sono incontrati al Cairo ed hanno concordato di dar vita ad un “governo unitario” in vista del riconoscimento da parte delle Nazioni Unite di uno Stato palestinese indipendente entro i confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale. E’ nota la posizione totalmente negativa di Israele sia rispetto allo Stato palestinese così concepito, sia alla pacificazione tra i due grandi rivali Hamas e Fatah, tanto che in tutti questi anni, nonostante i continui “negoziati di pace”, Israele ha continuato imperterrito nella sua politica di annessione dei territori palestinesi, di repressione e di apartheid nei confronti dei palestinesi e di urto anche con gli alleati-padroni di sempre, gli americani che, invece, vorrebbero che insieme alla normalizzazione della situazione dei paesi arabi scossi dalle rivolte sociali si realizzasse anche una pacificazione fra israeliani e palestinesi (naturalmente a spese dei palestinesi, sconfitti ormai da più di trent’anni). Se in terra palestinese le cose non vanno per niente a favore anche solo di un minimo per le masse martoriate da più di cinquant’anni, in Giordania sembra che il re Abdallah II riesca invece a rintuzzare la protesta che si manifesta ogni venerdì, dopo la preghiera, dall’inizio dell’anno, soprattutto ad Amman, promettendo di prendere provvedimenti contro la corruzione imperante nel paese, per una riforma elettorale e una amnistia generale per i prigionieri politici. Ciò però non ha impedito ad una folla inferocita, lo scorso giugno, nella cittadina meridionale di Tafileh , di dare l’assalto ad una struttura pubblica che il re Abdallah II stava visitando. Tafileh è una cittadina a nord della Giordania, vicino al confine con la Siria; Dera’a, nella Siria meridionale, fulcro della rivolta in Siria, dista non molti chilometri da Tafileh che potrebbe diventare quello che Sidi-Bouzid è diventato per la Tunisia.

 

L’attenzione dei mass media è ora puntata sulla Siria, e su Gheddafi, perché le maggiori preoccupazioni imperialistiche sembrano concentrarsi su questi due paesi; in realtà, tutta l’area dei pesi arabi è sottoposta ad una serie continua di interventi diplomatici, economici, politici, militari, nel tentativo di una normalizzazione che non sarà per nulla facile da raggiungere. Questa normalizzazione sarà difficile non solo perché i contrasti tra le borghesie dei diversi paesi coinvolti, e tra le frazioni interne ad ogni borghesia nazionale, stanno acutizzandosi sempre più, e non solo perché la pressione diretta e indiretta delle diverse potenze imperialistiche aumenterà inevitabilmente – aumentando nello stesso tempo i contrasti tra i diversi imperialismi coinvolti – aggiungendo fattori di crisi a quelli già esistenti e per nulla risolti, ma anche perché il movimento delle masse proletarie e proletarizzate emerso nelle piazze e nelle strade da più di sette mesi non accenna a placarsi. Le condizioni materiali che hanno provocato le ribellioni in Tunisia, in Egitto, in Yemen e negli altri paesi non sono migliorate, anzi, sono semmai peggiorate nonostante la caduta dei tiranni e le promesse di riforme, di elezioni, di lotta alla corruzione, di maggiori “libertà politiche” ecc.

Ciò che, purtroppo, costituisce un grosso intralcio per i movimenti delle masse proletarie e proletarizzate sono le illusioni piccoloborghesi sulle “soluzioni elettorali”, sui cambiamenti in termini di cosmetica parlamentare e riformista che sia i governanti attuali che i partiti di opposizione, che le potenze imperialistiche occidentali, diffondono a piene mani. Queste rivolte hanno dimostrato, e stanno dimostrando, che i governanti di ieri e i governanti di oggi – pur di mantenere ben saldo il potere e i privilegi che si sono assicurati finora – sono disposti a “cambiare tutto per non cambiare niente”!

Le azioni repressive vanno a braccetto con le promesse di riforme, la destituzione di qualche governante va a braccetto con il passaggio di mano a governanti meno invisi alle masse ma egualmente corrotti e corruttibili, le concessioni di “libertà politiche”, di stampa, di opinione, di riunione vanno a braccetto con la repressione delle manifestazioni e degli scioperi. Ai capitalisti locali, come ai capitalisti stranieri, interessa sedare le rivolte per ricominciare a sfruttare a pieni giri i proletari di ogni paese e riaccumulare profitti; se per ottenere questo risultato bisogna sacrificare un Ben Alì, un Mubarak o un Saleh, sia fatto, come saranno fatti tutti i tentativi per neutralizzare un Gheddafi o ridurre ad atteggiamenti più diplomatici e meno repressivi un Bashar al-Assad.

Resta il fatto che i proletari in Siria come in Tunisia, in Egitto come in Yemen, in Giordania come in Marocco o in Algeria, se non vogliono continuare ad essere schiavizzati dal capitalismo e dal potere borghese che lo difende trasformandoli in carne da macello, dovranno usare la propria collera e le proprie forze di ribellione per separare le proprie aspirazioni e i propri obiettivi da quelli dei riformisti e dei democratici di qualsiasi colore, e orientarsi verso i loro veri interessi di classe! Questi interessi non potranno mai essere condivisi dalle altre classi sociali, meno che mai dai borghesi che, invece, per “convincere” i proletari a sostenere gli interessi del paese, e magari della democrazia, intanto li reprime e li massacra in nome di un ordine costituito che è l’ordine borghese! 

 

Imboccare la strada della rivolta di piazza è la naturale reazione a decenni di miseria, di restrizioni, di repressione, di sfruttamento sempre più bestiale; ma non è risolutiva. Il proletariato ha nelle proprie mani una grande forza che può diventare effettivamente dirompente e rivoluzionaria alla condizione di essere organizzata su basi di classe, orientata e diretta su obiettivi di classe utilizzando i mezzi della lotta di classe che sono tali solo se adottati a difesa esclusiva degli interessi proletari di classe, nell’immediato come nel futuro.

I media di mezzo mondo hanno definito le rivolte nei paesi arabi come “rivoluzioni”. Ma la rivoluzione è ben altro, come la storia insegna. La rivoluzione è l’opposto della democrazia, della protesta pacifica, del cambiamento di personale politico al governo. La rivoluzione è quel processo sociale per cui una classe, organizzata intorno ad un programma che esprime gli interessi e gli obiettivi storici della classe rivoluzionaria, accetta lo scontro armato con lo Stato esistente per conquistare il potere politico, lo combatte per vincerlo, spezzarlo e sostituirlo con un'altra organizzazione statale che risponde esclusivamente agli interessi della classe rivoluzionaria. Nella società borghese, nel capitalismo, l’unica classe rivoluzionaria è il proletariato, la classe dei lavoratori salariati; lo è perché storicamente ha dimostrato di essere l’unica classe a non avere nulla da difendere in questa società, che avendolo ridotto alla schiavitù salariale ne sfrutta la forza lavoro al solo scopo di estorcere plusvalore, che per i borghesi significa profitto capitalistico. E per il profitto capitalistico la classe dominante borghese, che è la minoranza della società, tiene sotto il suo tallone di ferro la grande maggioranza della società, il proletariato e le masse dei contadini poveri: oltre allo sfruttamento giornaliero della forza lavoro, il sistema economico e sociale borghese produce miseria, disoccupazione, fame, degenerazione sociale, devastazione ambientale, guerra! Queste condizioni sociali non sono prerogativa dei soli paesi cosiddetti poveri, ma sono condizioni del capitalismo in tutti i paesi. E’ per questo che i proletari tunisini, egiziani o siriani non solo sono fratelli tra di loro, ma sono fratelli di classe dei proletari italiani, francesi, tedeschi, americani, russi, cinesi e di tutto il mondo.

 

La via all’emancipazione dei proletari dallo sfruttamento capitalistico della loro forza lavoro, e quindi dalla schiavitù salariale, non è per nulla facile e non si presenta automaticamente quando le masse spinte dalla fame e da condizioni di esistenza intollerabili sfogano la loro rabbia contro i simboli del potere borghese. E’ una via che va preparata di lunga mano perché la storia insegna che si tratta di una guerra, della guerra di classe, della guerra sociale che il proletariato conduce contro tutte le classi che vivono sul suo sfruttamento e che, per mantenere i loro privilegi, usano contro di esso tutta la forza che la classe dominante può mettere in campo: la forza sociale, la forza politica, la forza militare, la forza religiosa, la forza della propaganda e quindi della menzogna, del ricatto, dell’inganno. La dittatura economica del capitale richiede una corrispondenza sul piano politico, e perciò la borghesia in tutti i paesi tende a militarizzare la società aggravando il dispotismo sociale e il dispotismo di fabbrica già esistenti. Il proletariato non potrà mai opporsi a questa formidabile pressione esercitata dalla classe dominante se non organizzando la propria forza prima di tutto per difendersi dagli attacchi di ogni genere da parte della borghesia e poi, in seguito, per attaccare finalmente il potere politico borghese allo scopo di rivoluzionare da cima a fondo l’intera società. In tutto questo percorso il proletariato potrà e dovrà contare solo su tre elementi fondamentali: la sua organizzazione classista di difesa immediata, il suo internazionalismo e il suo partito di classe che ne rappresenta la coscienza storica dei fini ultimi e la sua guida rivoluzionaria.

I proletari dei paesi arabi che stanno vivendo in questi mesi una situazione di grande fermento sociale non hanno ancora raggiunto una maturità politica classista tale da poter indicare ai proletari d’Europa o d’America la via da percorrere per riconquistare il terreno della lotta di classe e rivoluzionaria. Ma lo scossone che ha terremotato i paesi arabi ha provocato un aumento enorme dell’emigrazione da quei paesi di proletari che fuggono la fame, la miseria, la repressione e la guerra, verso i paesi europei. Inevitabilmente essi porteranno con sé la carica di rabbia sociale che hanno accumulato nei paesi d’origine e che contagerà, prima o poi, il sonnolento e depresso proletariato europeo. I proletari d’Europa hanno una grande storia di lotte di classe e rivoluzionarie alle spalle, una storia che però è stata sotterrata da decenni di opportunismo e di collaborazionismo interclassista ad opera delle più diverse tendenze opportuniste che hanno attraversato il Novecento. Non sappiamo se ci vorrà anche in Europa un periodo di gravissima crisi economica e sociale tale da spingere i proletari europei sulla stessa strada della rivolta sociale calpestata in questi mesi dalle masse dei paesi arabi; non sappiamo se dovrà essere lacerata completamente la coltre di ammortizzatori sociali che ha contribuito materialmente al perdurare del collaborazionismo sindacale e politico, perché i proletari europei risveglino nella loro memoria storica le battaglie di classe dei primi decenni del Novecento. E’ però certo che nel sottosuolo economico anche dei paesi capitalisti più forti si stanno accumulando tensioni e contraddizioni che faranno esplodere inevitabilmente le valvole di sfogo che la democrazia borghese ha costruito per contenere e controllare le spinte alla lotta dei proletari di una o dell’altra fabbrica, di uno o dell’altro settore, di uno o dell’altro paese. Allora l’alternativa sarà: morire di fame, o di guerra, o lottare contro l’ordine costituito, contro il vero nemico dei proletari di ogni paese, la classe borghese dominante e il suo Stato.

Solo la lotta di classe può aprire al proletariato un futuro di emancipazione che la classe borghese non potrà mai dare!

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

20 luglio 2011 

www.pcint.org

 

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