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Val di Susa: il movimento NO-TAV colpito dal dispotismo politico e sociale col quale il governo borghese targato Monti affronta l’emergenza economica e i movimenti di protesta

 

 

Il movimento NO-TAV della Val di Susa, che dal 1992 raccoglie l’adesione dei comuni montani della zona opponendosi ai cantieri della Tav sulla nuova e velocissima linea ferroviaria Torino-Lione, è stato nuovamente il bersaglio della repressione poliziesca con cui il governo borghese, ieri targato Berlusconi, oggi targato Monti, esprime la sua totale intolleranza nei confronti di una protesta che va a disturbare gli interessi “strategici” dei gruppi capitalistici italiani e francesi coinvolti in quest’opera finanziari faraonica basata sul debito pubblico.

Sì, finanziaria, perché, come dimostrato in molte sedi dagli stessi no-tav, la progettata nuova linea ferroviaria dell’alta velocità Torino-Lione non risponde per nulla ad interessi reali di comunicazione tra i due versanti alpini – esiste già la linea ferroviaria, basterebbe solo utilizzarla appieno sia per i passeggeri che per le merci, e che finora è attiva al di sotto del 50% della sua potenzialità – ma risponde esclusivamente ad interessi capitalistici finanziari legati alle lobby del cemento e del ferro e alla finanza spesso legata alle mafie che sempre si incuneano, attraverso la rete di contatti con l’impreditoria, con le amministrazioni locali e con i partiti che le dirigono, nelle “grandi opere” sostenute da fondi pubblici.

Tra gli striscioni dei manifestanti No-Tav che hanno invaso Torino sabato 28 gennaio, chiedendo l’immediata scarcerazione degli arrestati, si poteva leggere: Che ce ne frega di Parigi in 3 ore e ½ se aspettiamo mesi per esami e visite mediche! Le priorità del capitale sono definite dalla smaniosa corsa al profitto in qualunque situazione, non solo di espansione economica ma anche di crisi, e a qualsiasi prezzo per la maggioranza della popolazione coinvolta nelle sue operazioni economiche e finanziarie; le priorità della stragrande maggioranza degli abitanti non solo della Val Susa, ma di qualsiasi posto, sono al contrario legate alla sopravvivenza quotidiana, al salario, alla sanità, al pendolarismo obbligato tra l’occupazione e la disoccupazione, tra il precariato e la miseria. L’Alta Velocità risponde prima di tutto agli affari delle imprese che la costruiscono, alle banche che ne sostengono i crediti, alle aziende che ne amministrano il servizio, ai politicanti che ne facilitano le pratiche burocratiche e i percorsi nei meandri delle leggi esistenti per gabbarle tutte le volte che tendono ad ostacolarne la velocità d’esecuzione e, ovviamente, agli uomini d’affari che la utilizzeranno perché a questi signori andare a Parigi o tornare da Parigi in tre ore e mezza può effettivamente essere importante: il tempo è denaro!, è un vecchio detto borghese, sempre valido.

Il movimento dei No-Tav che da più di vent’anni si oppone al progetto dell’Alta Velocità che sconvolgerebbe completamente la Val Susa, non è un movimento sovversivo, non è guidato o infiltrato dall’anarchismo insurrezionalista o da residui brigatisti, né tantomeno di segno proletario o rivoluzionario; è un movimento pacifico, legalitario, interclassista, che non si è limitato a protestare contro un progresso tecnologico che mette a soqquadro la pace e il tranquillo scorrere delle stagioni nella valle, ma che ha coinvolto un folto gruppo di ingegneri, geologhi ed economisti che si sono dati daffare, ognugno nel proprio campo di specializzazione, per dimostrare che questa opera faraonica – alla pari di altre come il Ponte sullo Stretto, la terza variante sulla Milano-Genova, la variante autostradale di Mestre ecc. – è dannosa per l’ambiente, per la vita umana dei luoghi che attraversa, inutile ed economicamente contraria agli interessi delle comunità coinvolte direttamente, oltre ad essere indirizzata esclusivamente a saziare la voracità delle lobby finanziarie interessate all’opera e a rappresentare un’ulteriore fonte di guadagno per le mafie e un ulteriore spreco di denaro pubblico. Questo movimento si trovava contro il governo di ieri e si trova contro il governo di oggi, i maggiori partiti parlamentari, le amministrazioni locali da loro guidate, come il comune di Torino, la provincia e la Regione Piemonte, e naturalmente tutti i media che hanno sposato “il progresso” contro la “staticità” dei valligiani. Ma quel che fa di questo movimento un bersaglio della repressione è proprio la sua  tenuta nel tempo, il coraggio di continuare a protestare nonostante le continue intimidazioni, i tentativi di corruzione e la repressione col pretesto di essere infiltrato dai violenti dei “centri sociali” o da ex sovversivi, e la preparazione tecnica dei suoi sostenitori, il caparbio attaccamento ai metodi pacifici, legalitari e democratici di una protesta che ha assunto nel tempo valore d’esempio rispetto ad altri movimenti di protesta.

La maxi-operazione di polizia, la mattina del 26 gennaio, con i 26 arresti, le denunce e le perquisizioni in quindici provincie, da Torino a Genova a Palermo, da Asti a Milano a Trento, a Parma e Modena, da Pistoia a Macerata a Roma, da Biella a Cremona, Padova e Bergamo, non riguarda fatti recentissimi, ma fatti di sette mesi fa. L’inchiesta della Digos e della Procura di Torino per la quale è scattata la repressione di questi giorni riguarda sia gli scontri avvenuti lo scorso 27 giugno, alla Maddalena di Chiomonte nell’alta Val di Susa, quando, a sfondare i presìdi dei valligiani della cosiddetta “Libera Repubblica della Maddalena”, arrivarono le ruspe scortate da 2500 poliziotti allo scopo di aprire il primo cantiere (finto!) della Tav, che gli scontri del 3 luglio successivo sempre nella stessa zona che causarono duecento feriti tra le forze dell’ordine e poco meno tra i manifestanti. E tutto questo succede a sette mese dai fatti, cosa che, per usare un frase cara al superindagato Berlusconi, ha il sapore di un colpo ad orologeria: mentre stanno montando in Italia proteste di ogni tipo, da quelle operaie contro i licenziamenti in decine e decine di aziende (in genere tenute isolate le une dalle altre e quasi sempre tenute sotto silenzio) a quelle dei padroncini del trasporto su gomma, a quella dei pescatori o dei tassisti (che hanno rapidamente preso le prime pagine dei media di queste ultime settimane), il governo “tecnico” va a colpire un movimento che resiste da vent’anni e che mette in discussione affari per non meno di 10 miliardi di euro.

Il pretesto colto per la repressione non è nuovo. Da un rapporto della Digos di Torino (vedi www.ilfattoquotidiano.it  del 26/1/12) emergerebbe che il movimento No-Tav avrebbe preparato un piano con “strategie militari” per impedire l’inizio dei lavori nella Val Clarea e messo a punto nella “Libera Repubblica della Maddalena” dove, sempre secondo la Digos, “vennero concertate strategie militari volte a stabilire un perfetto e sincronico piano di difesa, con precise tempistiche di reazione e distribuzione delle mansioni”, tutte attività che “iniziavano al suono di una sirena o al lancio di un fumogeno e venivano coordinate attraverso l’uso di radioline tipo walkie talkie”. La Digos, in sostanza, avrebbe scoperto che i manifestanti invece di offrirsi disorganizzati e docili di fronte alla violenza virtuale e cinetica delle forze dell’ordine, si organizzavano per difendersi dagli attacchi della polizia! Ma non è tutto, perché durante gli scontri dell’agosto scorso, addosso ad un manifestante è stato trovato un documento manoscritto ritenuto “preziosissimo”, considerato una sorta di “manuale dell’insurrezione”; vi sarebbero annotati sia i mezzi per resistere allo sgombero dei presìdi, sia gli strumenti per assediare il cantiere. Nel primo caso, le “barriere invalicabili” (filo spinato, massi, tubi, olio, tronchi d’albero, fuoco) e barriere “mobili”; nel secondo caso, invece, i “mezzi di difesa” (Maalox e limone “per contrastare i sintomi di nausea allo stomaco e bruciore agli occhi causati dalla esposizione ai gas lacrimogeni”, caschi, maschere, scudi, guanti) e i “mezzi di offesa” (frombole, fionde, fuochi vari, laser), la “artiglieria” (catapulte, trabucco, lanciamassi) e un ordine di servizio ben preciso: “Si parte e si torna assieme”. Un movimento di protesta come questo dei No-Tav avrebbe mai potuto durare da vent’anni se, insieme alle ragioni di fondo che lo muove (la difesa del territorio e dell’ambiente e la difesa delle singole proprietà), non avesse tirato qualche lezione e accumulato un minimo di esperienza dalle continue azioni repressive subite? Alla polizia non sempre i movimenti di protesta si presentano come il corteo dei 300.000 pacifisti, legalitari e democratici a Genova il 21 luglio 2001, o gli organizzatori dei social forum e i manifestanti inermi e assonnati della Scuola Diaz, o gli arrestati della caserma di Bolzaneto...

Governo politico o “tecnico”, di centrodestra o di centrosinistra, il fatto è che quando ci sono di mezzo i grandi interessi capitalistici sui quali si innestano investimenti pubblici – dunque chi paga è sempre Pantalone – ogni ostacolo va rimosso, con le buone o con le cattive. E il “progresso”, in questo come in mille altri casi, non c’entra, perché il capitalismo maturo, il capitalismo della finanza, non poggia più sul  propulsore storico rappresentato dalla rivoluzione contro l’organizzazione produttiva e sociale precapitalistica, non è più il motore dello sviluppo storico di un nuovo modo di produzione, ma ne è in realtà l’ostacolo principale, poiché le forze produttive lanciate in un vorticoso ed eccezionale aumento proprio dalla continua rivoluzione tecnica dei mezzi di produzione sono invece costrette in forme sociali divenute antistoriche, dannose per l’uomo, per la società e per l’ambiente naturale. Queste forme sociali sono rappresentate dalle istituzioni borghesi, dallo Stato, soprattutto, e dalle leggi che governano la società secondo gli interessi del capitale. Il mercato, la concorrenza, la competitività delle merci, il profitto, la crescita economica, i bilanci in positivo delle aziende e degli Stati, sono gli idoli della società capitalistica ai quali vengono immolate le migliori energie del lavoro vivo. E ha importanza relativa che il lavoro vivo, il lavoro produttivo dei salariati, soggiacia alle leggi del capitale nelle forme politiche della democrazia liberale, della democrazia blindata o dell’autoritarismo totalitario delle forme fasciste: le forme politiche democratiche, nella storia delle lotte sociali, hanno dimostrato di allungare di molto la sopravvivenza del capitalismo, mentre le forme politiche fasciste, le forme dell’aperta dittatura borghese che in determinati svolti storici si è resa necessaria – e si potrebbe ancora rendere necessaria – per  evitare la sconfitta borghese di fronte alle forze rivoluzionarie del proletariato, non hanno la stessa presa, nel tempo, delle forme democratiche. Ma democrazia borghese non equivale a miglioramento sociale delle classi lavoratrici, e non equivale ad un sistema politico in grado di riparare e superare i guasti che l’economia capitalistica, nel suo sviluppo iperfolle come nelle sue crisi, inevitabilmente provoca. Democrazia borghese equivale ad inganno sistematico delle classi proletarie.

Illudersi che attraverso azioni legali e legalitarie di pressione costante sui governi nazionali o locali, affinché determinate decisioni di carattere economico siano valutate, o riesaminate, secondo gli interessi del benessere dei gruppi sociali direttamente o indirettamente coinvolti, porta inesorabilmente ad uno spreco enorme di energie sociali, ed economiche, e a nessun risultato concreto. Quando c’è di mezzo l’interesse economico e finanziario delle grandi aziende, e degli Stati che le difendono, non c’è azione democratica che possa mettere loro un freno. Che cosa c’è di più basilare in questa società se non avere un salario, e quindi un posto di lavoro nel quale farsi adeguatamente sfruttare per ottenere un salario con cui cercare di vivere? Forse che la vita della stragrande maggioranza dei proletari è garantita in termini di salario, e quindi di posto di lavoro? Nemmeno per sogno! Il capitale non ha alcuno scrupolo nel gettare sul lastrico milioni di proletari per difendere i propri profitti; come non ha alcuno scrupolo nell’inquinare con qualsiasi sostanza nociva uomini e ambiente pur di far profitto. Si può pensare che rinunci ai propri profitti di fronte ad una protesta pacifica, legalitaria e democratica di una Valle o anche di una nazione intera?  La stessa democrazia borghese, che in mano ai cittadini diventa un’arma spuntata – sono innumerevoli gli esempi di azioni democratiche finite nel vuoto – in mano alla borghesia dominante diventa un’arma a difesa dei propri interessi di classe, interessi che vengono salvaguardati più spesso aggirando le stesse leggi democratiche che la borghesia ha promulgato e che non applica a se stessa.

I movimenti di protesta, come il No-Tav, esprimono un disagio di fondo rispetto ad una società che non tiene mai conto del benessere della collettività, proprio perché tiene conto degli interessi di gruppi capitalistici sì minoritari, ma che detengono il vero potere economico e politico sull’intera società, potere che esercitano su tutti i piani contemporaneamente, politico, economico, sociale, militare, ideologico e propagandistico. La lotta che questi gruppi svolgono è lotta di classe, lotta della classe borghese dominante contro ogni altra classe della società, e soprattutto contro la classe del proletariato che, potenzialmente, è l’unica che può davvero mettere in pericolo il suo potere. Ma, come già avvenuto nelle crisi economiche precedenti, durante i periodi di crisi economica la classe dominante borghese non ha alcuno scrupolo neanche nei confronti delle classi piccoloborghesi, del famoso ceto medio, anche se, in verità, gli è molto utile perché veicolo delle illusioni borghesi nei confronti della classe proletaria. E così, succede sempre in più occasioni, che i pescecani delle banche, della finanza e delle grandi multinazionali, per portare a termine i loro affari non tengano più conto dei delicati equilibri politici e sociali legati al consenso, alle percentuali elettorali, e nemmeno di precedenti promesse di negoziato e di “approfondite valutazioni” delle “alternative”, tanto più se in ballo ci sono investimenti pubblici (soldi da accaparrare e non da sborsare!), ma premano sullo Stato perché impegni le forze dell’ordine a difesa dei loro grandi interessi. Lo facevano ieri, lo fanno oggi e continueranno a farlo domani, insieme all’inevitabile e sempre presente pressione mafiosa.

Per contrastare i capitalisti anche sul terreno della sopraffazione territoriale, della vessazione sistematica, della repressione poliziesca come risposta alla protesta, non vi è altra strada che quella della lotta di classe proletaria, ossia della lotta che mette al centro la difesa esclusiva degli interessi di classe dei lavoratori salariati uniti fra di loro non da legami corporativi che si basano sulla concorrenza tra lavoratori di categorie, di nazionalità o di settori diversi, ma da legami di solidarietà di classe perché si riconoscono gli uni negli altri come fratelli di classe, con interessi comuni nel lottare contro i capitalisti di qualsiasi azienda, di qualsiasi settore, di qualsiasi nazione. Si dirà: ma questa lotta di classe oggi non c’è e non si può pensare che nasca in una notte, quindi?

 E’ indubbio: la lotta di classe del proletariato è assente, è stata seppellita da decenni di interclassismo e di collaborazionismo politico e sindacale, ed è certo che non può rinascere in una notte. Ma i fattori economici di fondo ci sono tutti: lo sfruttamento del lavoro salariato è sempre più intenso e bestiale, aumenta la miseria del proletariato e anche degli strati più bassi della piccola borghesia rovinati dalla crisi economica, aumenta la disoccupazione sia degli operai che avevano un lavoro sia dei giovani che non trovano lavoro, aumenta continuamente la precarietà della vita della stragrande maggioranza della popolazione, mentre sull’altro versante sociale, dalla parte della minoranza borghese e grande borghese, aumentano la ricchezza e il privilegio sociali. Nello stesso tempo si stanno assottigliando le risorse destinate al castello degli ammortizzatori sociali con i quali la classe borghese dominante ha comprato la complicità dell’opportunismo politico e sindacale, assicurandosi lunghi periodi di pace sociale e lotte operaie mantenute nei limiti delle “compatibilità”, sia economiche che politiche, utili alla borghesia per aumentare e difendere i propri profitti.

I fattori che metteranno in movimento la classe proletaria non solo in episodi isolati e di disperata solitudine, ma in esplosioni di lotta che coinvolgeranno migliaia e milioni di proletari stanno lentamente maturando; la crisi economica che sta attraversando il capitalismo in Europa, in America e nel mondo è molto più profonda e grave di quanto non ci vogliano far capire e il fatto che stanno aumentando le misure di dispotismo economico e sociale a livello internazionale non è che una anticipazione di un dispotismo politico che presto o tardi si materializzerà in forme totalitarie (anche se continueranno a definirsi “democratiche”) che prepareranno gli Stati allo scontro di guerra. L’obiettivo della lotta proletaria non potrà dunque essere soltanto fermare lo scempio ambientale in Val di Susa o in Campania, ma riorganizzare sul terreno di classe le proprie forze indipendenti dagli apparati dello Stato e del collaborazionismo per prepararsi ad una lotta che, in prospettiva, inevitabilmente, avrà un orizzonte politico ampio e decisivo: il potere politico centrale, la lotta per la sua conquista e per l’abbattimento dello Stato borghese. In poche parole: la rivoluzione proletaria per abbattere la dittatura borghese e per instaurare la dittatura del proletariato, unica via per poter trasformare da cima a fondo la società attuale, seppellendo una volta per tutte il modo di produzione capitalistico che si mantiene alla sola condizione di divorare lavoro umano vivo!

In questo prospettiva lavorano i comunisti rivoluzionari, che oggi solidarizzano con i colpiti per le lotte in Val di Susa dalla repressione poliziesca, come solidarizzano sempre con tutti coloro che si oppongono allo strapotere del capitale e della borghesia e vengono per questo colpiti dalla repressione, ma che puntano soprattutto al sostegno di lotte sociali che contengono un potenziale di classe – e che non hanno quasi mai le prime pagine dei media – come ad esempio le lotte degli operai della Wagon Lits che a Milano, pur avendo ricevuto la promessa di un posto di lavoro alternativo, continuano a lottare in solidarietà con gli 800 compagni di lavoro licenziati in tutta Italia: limitato ma significativo esempio di solidarietà classista!

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

28 gennaio 2012

www.pcint.org

 

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