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Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                        


 

Sul “Movimento del 9 dicembre”, tra spinte individualistiche e reazionarie, spontaneità rabbiosa e illusioni democratiche e costituzionali

 

 

E’ indiscutibile che le manifestazioni di strada e di piazza che hanno messo in subbuglio molte città italiane nell’ultima settimana hanno visto la mobilitazione più o meno spontanea di movimenti, gruppi sociali, associazioni e individui spinti da un disagio economico profondo determinato certamente dalla crisi economica perdurante, ma aggravato, nello stesso tempo, dal fatto che le conseguenze della crisi continuano ad appesantirsi sulla vita quotidiana non solo dei proletari, ma anche di una  parte degli strati di popolazione che fanno parte della piccola e media borghesia.

E’ altrettanto indiscutibile che queste proteste vedono impegnati soprattutto i componenti della piccola borghesia, rovinati dalla lunga crisi economica, che si ribellano al loro precipitare nelle condizioni di vita proletarie, perdendo i loro beni, le loro proprietà, i loro privilegi sociali, il loro tenore di vita. I piccoloborghesi si aspettano sempre che lo Stato centrale e la grande borghesia dominante, nei periodi di crisi, riservi loro una sorte meno brutale di quella che viene riservata ai lavoratori salariati, perché sono convinti che l’economia inceppatasi su un mercato che è diventato enorme e globalizzato, ma bloccato, possa ripartire grazie a loro, al loro lavoro, dalla piccola e media azienda dove il padrone lavora fianco a fianco con i suoi operai. I piccoloborghesi sono sempre pronti ad osannare gli imprenditori che “si sono fatti da soli” e che talvolta diventano grandi imprenditori perché vedono nel loro “successo” una specie di garanzia per il mantenimento delle loro piccole aziende e per il loro futuro.

Ma quando la crisi economica colpisce duro, come sta succedendo da cinque anni a questa parte, non solo nelle grandi fabbriche e nelle grandi aziende, ma anche in quelle medie e piccole, la cui attività d’altra parte dipende sempre più dall’andamento economico generale condizionato dalle grandi aziende, i piccoli imprenditori si ritrovano abbandonati dai grandi imprenditori e dallo Stato ad una sorte rovinosa: il mercato che, prima della crisi, dava la sensazione di regolare la concorrenza e lo sviluppo degli affari di ognuno, ora viene percepito come un’arma in mano alle grandi aziende, ai grandi trust, alle multinazionali usata per calpestare la miriade di piccole imprese in difficoltà. Le banche che, prima della crisi, venivano adorate come i templi del denaro in cui le proprie riserve accumulate venivano protette e fatte fruttare, ora vengono percepite come lunga mano dei poteri forti che distolgono risorse e crediti ai piccoli imprenditori per indirizzarli verso i grandi imprenditori. Il parlamento, coi suoi deputati e senatori, sostenuti normalmente dagli imprenditori di qualsiasi settore, grandi e piccoli, allo scopo di ottenere, ognuno per sé, dei favori per i propri affari, favori quasi sempre contraccambiati con regali o tangenti, finché l’economia si sviluppa (e gli affari li possono fare più o meno tutti) resta per loro un’istituzione degna di rispetto; ma, perdurando la crisi e aggravandosi sempre più le condizioni economiche delle piccole e medie aziende, le banche vengono considerate non più amiche ma nemiche perché sostengono il grande capitale a discapito dei piccoli capitali. Lo Stato, a sua volta considerato normalmente al di sopra delle classi  e degli interessi di parte, con la crisi e a causa delle misure che il governo o i governi prendono a difesa dell’economia nazionale, e quindi delle grandi aziende prima di tutto, viene considerato come uno strumento manipolato dai cosiddetti “poteri forti” contro i quali, e per primi il governo e le banche, si rivolge la propria rabbia.

Gli strati di piccola borghesia, in virtù della loro composizione sociale e della loro collocazione in mezzo agli antagonismi sociali profondi tra classe borghese dominante – il grande capitale -  e la classe dei lavoratori salariati – la grande massa dei proletari – sono per loro natura ultrasensibili alle modificazioni nei rapporti di forza sociali, avvertendo come dramma sociale il pericolo di cadere nelle condizioni di senza riserve, il pericolo di essere proletarizzati senza scampo. Da qui la ribellione ad un processo economico e sociale di espropriazione dei loro beni, delle loro proprietà, dei loro privilegi a vantaggio di una classe, quella borghese e capitalistica, che detiene il potere economico e politico nella società, che però è sempre apparsa come una meta da raggiungere, un mito del benessere e della ricchezza cui aspirare, una promozione sociale alla quale accedere per il solo fatto di essere possidenti. I movimenti attuali di piccoli imprenditori non sono una novità sulla scena sociale. Possono cambiare denominazione, alzare una bandiera un po’ diversa, dotarsi di leader che vengono dal “popolo”, ma sostanzialmente non cambiano: restano movimenti fondamentale reazionari, che difendono la piccola proprietà contro la grande, la piccola impresa contro la grande, ma pretendono di avere nei confronti dello Stato e delle banche un peso e una considerazione simile a quella delle grandi aziende, come se le “regole” del mercato potessero essere modificate a piacere.

La rabbia e la ribellione, più o meno contenute nelle forme pacifiche e tendenzialmente rispettose ancora delle leggi e delle regole democratiche, che caratterizzano il cosiddetto Movimento dei Forconi, come il cosiddetto Movimento del 9 dicembre e i movimenti affini, non sono che una manifestazione di rancore, ancora trattenuto, verso uno Stato e un aggregato di personale politico dirigente che hanno dimostrato in questi anni di non tutelare gli interessi dei piccoli e medi imprenditori dell’agricoltura, dell’industria, del turismo, dei trasporti, dei servizi ecc. E’ inevitabile, d’altra parte, in completa assenza della lotta di classe proletaria, e quindi delle sue associazioni economiche di classe e dell’influenza del partito proletario rivoluzionario, che frange di proletariato, emarginate nella disoccupazione e nella disperazione, si facciano trascinare da questi movimenti a dar man forte per alzare la loro rabbia contro un governo, un parlamento e uno Stato che in realtà non sono in grado – come non lo saranno mai! – di risolvere alla radice i problemi della disoccupazione, del precariato e della crisi economica che li aggrava rendendoli sempre più acuti.

Il cosiddetto Movimento dei Forconi, che raggruppa associazioni di agricoltori, allevatori e pastori, ha chiamato a raccolta studenti e disoccupati, edili e pescatori, precari pensionati e cassintegrati per protestare contro le politiche di austerità adottate dai governi che si sono succeduti finora. Ma quali sono le loro rivendicazioni? Essi rivendicano il rimborso delle accise, il mantenimento delle risorse economiche già stanziate per i loro comparti, il rispetto della normativa europea in termini di lavoro in somministrazione transnazionale e sul cabotaggio, misure efficaci contro il lavoro nero e contro le pratiche illegali. Essi rivendicano, in pratica, di tornare alle politiche che il capitalismo aveva adottato prima della crisi e delle misure di austerità E quale entità dovrebbe assicurare loro questi passi indietro? Quali partiti? Quale governo? Essi sono contro tutti i partiti politici che siedono in parlamento e contro i grandi sindacati tradizionali come la Cgil, la Cisl e la Uil perchè troppo legati e coinvolti con i partiti e con i governi. Essi sono contro la pesante pressione fiscale che lo Stato ha introdotto da tempo, e contro le misure di austerità che limitano fortemente i loro piccoli affari, mentre la casta dei politici e degli amministratori pubblici continua a mantenere stipendi, benefit, privilegi e future pensioni che stridono enormemente nel confronto con gli altri strati sociali. Essi, che si dicono i rappresentanti dell’Italia “che produce”, si ribellano alle condizioni di depressione economica in cui sono precipitati a causa della crisi perché vogliono tornare alle precedenti condizioni di sviluppo dei loro affari e, quindi, criticano e protestano contro il governo e lo Stato che non aprono i cordoni della borsa a loro favore. Ma non si rendono conto, e non possono farlo, che lo sviluppo stesso del capitalismo, tendendo a concentrare capitali, proprietà, industrie e aziende di vario tipo, tende nello stesso tempo a distruggere in buona parte i piccoli capitali, le piccole aziende, le piccole proprietà, proletarizzando sempre più le masse umane.

Le proteste si sono allargate ad altri movimenti ed altri strati sociali; è nato il Movimento cosiddetto del “9 dicembre”, perché lunedì 9 dicembre iniziava una “lotta” ad oltranza contro il governo nella quale confluivano associazioni e movimenti i più disparati, ma sempre fondati da piccoli imprenditori dell’agricoltura, dei trasporti, dell’industria che, per creare una massa utile per bloccare strade, ferrovie, svincoli ecc. in tante città e, quindi, avere visibilità nei telegiornali e creare notizie per i giornali, hanno chiamato a partecipare disoccupati, studenti, precari in modo da coagulare il disagio sociale esistente intorno ai propri obiettivi, alle proprie rivendicazioni. Che tutta questa mobilitazione per scopi angustamente piccoloborghesi si svolgesse sotto il cappello nobile della “sovranità nazionale da salvare” era inevitabile, e non è per caso che le uniche bandiere che si sono viste sventolare sono quelle del tricolore italiano; prendersela con le multinazionali e con un governo che svende le grandi aziende italiane per fare cassa vuol dire prendere in prestito concetti e argomenti del più puro nazionalismo, così caro non solo alle forze politiche di destra ma anche, sebbene mimetizzato sotto il velo del “lavoro italiano”, a quelle di sinistra.

Il clima sociale, oggi, in Italia è caratterizzato da un confuso fermento di contrasti del tutto interni alla borghesia: piccoloborghesi che, per non essere drammaticamente schiacciati, si alleano con borghesi medi contro i grandi borghesi che hanno di fatto in mano il potere economico, politico e militare (lo Stato); piccoloborghesi che, in concorrenza fra di loro, si riuniscono e si dividono ad ogni piè sospinto e a seconda di come gira il vento; borghesi medi che tentano di mediare i contrasti fra i diversi strati della classe borghese attraverso il parlamento e il “confronto democratico” ribadendo il loro ruolo di promotori dell’equilibrio sociale; grandi borghesi che guardano queste espressioni di disagio, di rabbia e di insoddisfazione tenendo d’occhio le prefetture e le questure sempre pronte ad intevenire per far rispettare l’ordine, la legge, gli “interessi del paese” cioè gli interessi del grande capitale. In questa situazione si evidenzia, in effetti, da un lato l’inconsistenza politica e programmatica di movimenti che sono spinti da interessi limitati, parziali e contingenti, quasi sempre retrogradi, dall’altro lato la sicumera di un potere politico e di un parlamento del tutto distanti dalle esigenze di sopravvivenza che una parte non piccola della popolazione governata esprime (basti pensare al 43% di giovani senza lavoro, al 12% di disoccupazione, alla diffusione del precariato e all’aumento della quota di popolazione che precipita al di sotto della soglia di povertà); e da un altro lato ancora l’immobilismo e l’impotenza dell’unica forza sociale, il proletariato, che potrebbe rappresentare, essa sì, un riferimento sociale fermo, sicuro, capace di visione politica e programmatica e trascinare dietro di sè gli strati sociali abbandonati alla disperazione o all’emarginazione.

La classe del proletariato, ancora oggi, è invisibile, inetta, schiacciata nell’individualismo e nelle illusioni demopopolari alimentati da decenni da partiti falsamente comunisti, ma in realtà controrivoluzionari, e da sindacati falsamente operai, ma in realtà collaborazionisti e venduti alla classe borghese nemica. La classe del proletariato, dei senza riserve, di coloro che in questa società – a differenza dei borghesi grandi, medi e piccoli – non hanno nulla da perdere se non le catene che li tengono avvinti ad un modo di produzione che li sfrutta bestialmente fino alla morte; la classe del proletariato non ha nulla da condividere con la piccola imprenditoria, come non ha nulla da condividere con i grandi imprenditori e lo Stato borghese centrale che tutto è meno che difensore degli interessi della classe proletaria. La classe del proletariato, la classe dei lavoratori salariati, da una società che si basa sulla proprietà privata e sull’appropriazione privata della produzione che è sociale, si trova oggettivamente e inesorabilmente opposta a tutte le altre classi e a tutti gli altri strati sociali che vivono e sopravvivono esclusivamente sullo sfruttamento del lavoro salariato, cioè del lavoro dei proletari. L’antagonismo di classe che oppone il proletariato alla classe borghese e agli strati sociali legati a filo doppio alla borghesia non è una raffigurazione immaginaria disegnata da teorie o ideologie particolari: è una realtà storicamente accertata dalle condizioni materiali ed economiche della produzione e dalla divisione della società in classi inevitabilmente contrapposte; e vale per tutti i paesi del mondo. Nel capitalismo, nella società odierna, la classe dominante è la borghesia, le classi dominate sono il proletariato e gli ampi strati di piccola borghesia che il marxismo ha definito mezze classi non solo, e non tanto, perchè sono collocate fra la borghesia e il proletariato, ma perché non posseggono finalità storiche proprie.

Il proletariato, la classe dei lavoratori salariati, la classe dei senza riserve non è protagonista oggi nè di ampi movimenti di protesta nè di grandi movimenti di sciopero. E questa consistente debolezza sociale il proletariato la deve certamente alle conseguenze della cocente sconfitta rivoluzionaria degli anni Venti del secolo scorso ma anche, e soprattutto, ai decenni di pratiche e di indirizzi opportunistici che il collaborazionismo tricolore ha attuato nei suoi confronti allo scopo di paralizzarne il movimento spontaneo alla lotta anticapitalistica, di confonderne l’orientamento e i fini stravolgendo le finalità rivoluzionarie in senso democratico, pacifista, legalitario, collaborazionista appunto. La debolezza odierna del proletariato ha radici nella controrivoluzione staliniana degli anni Venti, nel coinvolgimento attivo nella guerra antifascista e partigiana, nella partecipazione alla ricostruzione postbellica dopo la fine del secondo macello mondiale e nei decenni di rincoglionimento democratico, pacifista e parlamentare che hanno cadenzato sì un lungo periodo di espansione capitalistica in Europa, nelle Americhe e in Asia, ma che non potevano rappresentare il periodo di pace e di benessere propagandato a piene mani da Washington, pienamente capitalista e prima grandezza imperialista, e da Mosca, falsamente socialista e concorrente imperialista di maggior peso, perché il capitalismo nel suo sviluppo non può che travolgere territori e popolazioni sotto la legge del profitto e del mercato, nella concorrenza più spietata in cui si dà peso alla forza economica, politica, finanziaria e militare.

Il proletariato potrà riconquistare la sua forza di classe, e perciò ripresentarsi sulla scena storica come l’unica classe in grado di risolvere i gravi problemi di sopravvivenza della specie umana, solo risollevandosi dal torpore in cui è stato fatto precipitare grazie alle dosi massice di intossicazione democratica e collaborazionista, solo riprendendo a lottare per i propri esclusivi interessi di classe che sono antagonistici e inconciliabili con gli interessi borghesi, solo rompendo i legami che lo tengono avvinto alla “patria”, alla “sovranità nazionale”, all’economia nazionale, alla condivisione di obiettivi e di metodi di lotta con le altre classi sociali, solo rompendo con le politiche e le pratiche che lo riducono a massa di manovra a difesa degli interessi borghesi, in tempo di pace come in tempo di guerra.

Il disagio sociale che la piccola borghesia, nei suoi più svariati strati, esprime oggi con rabbia di fronte alla crisi capitalistica non deve diventare motivo di condivisione per la partecipazione operaia nella lotta contro il governo e lo Stato della borghesia. Gli operai, i proletari, non troveranno mai nei piccoloborghesi i propri alleati perché costoro, appena il vento cambia, sono pronti ad agire come sempre hanno agito: da braccio sociale, politico e militare al servizio della borghesia e dell’ordine borghese!

I proletari hanno una propria strada da imboccare: è quella della lotta di classe, e a questa lotta si devono preparare riconquistando il terreno della lotta immediata in difesa dei propri esclusivi interessi di classe, con obiettivi, metodi e mezzi di lotta classisti, come hanno tentato di fare, ad esempio, gli autoferrotramvieri di Genova nell’ultimo sciopero ad oltranza, come stanno tentando di fare i lavoratori italiani e immigrati della logistica, come hanno fatto i minatori in Sudafrica e gli operai e le operaie del tessile in Bangladesh o in Cambogia, a dimostrazione che i proletari vivono nel mondo, in quel mondo globalizzato tanto inviso ai piccoli impreditori italiani, negli stessi rapporti di produzione di lavoro salariato e, spesso, in condizioni di sfruttamento molto più bestiali di quelle che normalmente si è abituati a pensare; salvo scoprire, come a Prato, che nella civilissima e democraticissima Italia esistono notevoli sacche di lavoro schiavistico contro il quale i movimenti dei piccoli imprenditori, non importa con quale sigla, non si sognano minimamente di protestare!

I proletari non hanno nulla da difendere in questa società! Lottando per i propri interessi di classe, che sono antagonistici a quelli della classe dominante borghese, in realtà lottano nella prospettiva di rivoluzionare da cima a fondo l’intera società, nella prospettiva di spezzare il potere dittatoriale della classe borghese e di imporre il proprio potere dittatoriale di classe orientato a trasformare l’economia dal modo di produzione capitalistico che soddisfa le esigenze del mercato  al modo di produzione comunistico che soddisfa le esigenze della specie umana: la società di specie (finalmente la storia umana) contro la società di merci (la preistoria umana). La strada da percorrere a questo fine è lunga, ma la storia non conosce scadenze. Il proletariato vincerà e, vincendo, scomparirà anch’esso come classe sociale, liberando la specie umana alla società senza classi.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

15 dicembre 2013

www.pcint.org

 

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