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Gli immigrati?

Per il governo italiano rappresentano il pericolo numero uno per la stabilità economica del paese; problemi loro se muoiono nell’attraversamento del Mediterraneo o se vengono riportati nei lager libici da cui sono scappati pagando prezzi altissimi in termini di torture, sfruttamento e denaro.

Per i proletari di tutti i paesi industrializzati sono invece i fratelli di classe che mostrano quale può essere il loro destino nelle prossime crisi e nella futura terza guerra mondiale che, soltanto imboccando la via internazionale della lotta di classe e rivoluzionaria, potranno essere affrontate e sconfitte!

 

 

La chiusura dei porti italiani alle navi ONG, di qualunque nazione battano bandiera, è la grande novità della politica italiana rispetto ai flussi di migranti che fuggono dalla miseria, dalla fame e dalle guerre che stanno devastando da decenni l’Africa, il Medio Oriente e l’Asia centrale. Va detto, però, che il nuovo governo Lega-5Stelle, insediatosi lo scorso anno a Palazzo Chigi dopo la loro “vittoria” elettorale, non ha fatto altro che inasprire misure che i governi precedenti Renzi-Gentiloni avevano già provveduto a prendere, soprattutto riguardo i centri di detenzione (non “d’accoglienza e di identificazione”), d’accordo col governo libico di Tripoli, l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, perché li costruisse per internare i migranti che giungevano dai paesi della zona sub-sahariana e dal medio-Oriente.

Il respingimento delle masse di immigrati che premono ai confini di ogni paese ricco (Europa o America, che sia) è diventato la politica che accomuna tutte le borghesie imperialiste: erano considerati “risorse”, quando alla struttura economica capitalistica di ogni paese faceva comodo avere a disposizione masse di proletari da schiavizzare a poco prezzo, ma oggi gli immigrati sono diventati un problema di “smaltimento” come fossero rifiuti.

E’ noto che il nuovo sceriffo d’Italia, ministro dell’Interno, ha fatto della “lotta contro l’immigrazione clandestina” una delle priorità del nuovo governo, imponendo, nei fatti, tutte le misure che, con il pretesto della “sicurezza”, riteneva e ritiene assolutamente necessarie. E’ risaputo che di tali misure va fiero, facendosi un vanto del fatto che gli sbarchi sono diminuiti del 90% rispetto al periodo in cui al governo c’era il PD. Resta il fatto, però, che gli sbarchi, proprio grazie al PD e agli accordi presi con la Libia di Tripoli, erano già calati dell’80% prima che si insediasse il governo giallo-verde; dunque, come minimo, deve ringraziare il PD di aver fatto già il grosso del lavoro... Naturalmente per “immigrazione clandestina” il nostro sceriffo intende tutti i migranti che scappano dai loro paesi, non importa per quali ragioni scappino, se per ragioni di miseria, di fame, di repressione o di guerra, né se sono donne, minorenni o uomini. Il Mediterraneo, nell’ultimo decennio, non ha fatto distinzioni tra le migliaia di morti.

Dunque, anche nell’ultimo caso della Sea Watch, ancorata alla fonda davanti al porto di Siracusa con il suo carico di 47 migranti a bordo, di cui 13 minori non accompagnati, i porti italiani restano chiusi; che i migranti della Sea Watch siano da 8 giorni esausti, molto provati sia fisicamente che psicologicamente, ai nostri governanti non importa un fico secco. D’altra parte, la cinica coerenza del nostro sceriffo non fa una piega; era già successo nei casi dell’Aquarius, della Sea Watch 3, della Life e di altre navi delle ONG presenti nel Mediterraneo al largo delle acque libiche. Il rimpatrio rimane formalmente l’elemento fondante della politica di contrasto all’immigrazione illegale, ma, per salvare la faccia, si dice che deve essere permeato dal rispetto dei “diritti umani”. Ma quale “rimpatrio”? Se i migranti fuggono da situazioni insostenibili, a causa della fame e delle guerre, in quale “patria” dovrebbero tornare? In quella dalla quale scappano per non morire? Se vengono invece riportati dove si sono imbarcati – cioè per la maggior parte, in Libia –, è noto a tutti che questo significa riportarli in veri e propri lager dove non sono certo i “diritti umani” a dominare, ma lo sfruttamento più bestiale, la violenza e la tortura.  

Nel 2013, dopo l’immane tragedia di fronte a Lampedusa in cui affogarono 368 immigrati perché nessun naviglio li soccorse, nello stesso anno fu avviata dal governo italiano l’operazione Mare Nostrum; il problema “immigrazione”, per le dimensioni che aveva assunto, non poteva essere affrontato e “risolto” dalla sola Italia – che, in effetti, costituiva la “porta dell’Europa” per tutti i migranti che provenivano da sud – né a livello istituzionale e governativo (con la Guardia Costiera e la Marina Militare), né a livello non-governativo, attraverso le navi delle diverse ONG che si erano attrezzate per il soccorso in mare, assumendosi compiti che avrebbero dovuto essere espletati dai governi.

Il cosiddetto fenomeno del cospicuo flusso migratorio verso l’Europa inizia già al principiodel secolo, ma continua nel tempo e assume grandi dimensioni a causa della grande crisi capitalistica internazionale del 2008 che riversa sui paesi della periferia dell’imperialismo le conseguenze più gravi, sia in termini economici e di vita quotidiana sia in termini di violenze e distruzioni di guerra, spingendo masse sempre più consistenti a cercare altrove nelle stesse regioni continentali ed oltre, attraversando ad esempio il Mediterraneo, verso l’Europa occidentale.

Già da quell’epoca, e soprattutto dal 2011 in poi, i migranti, in realtà, costituivano – almeno per alcuni paesi, come la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la Polonia e la stessa Italia – non solo un “problema”, ma anche l’occasione di approfittare di una certa quantità di braccia da sfruttare a poco prezzo, senza “diritti”, e da utilizzare contro il proletariato autoctono per limitarne e contenerne le rivendicazioni. Quel che i potentati politici ed economici europei non volevano era, ed è, l’immigrazione incontrollata. Infatti l’illegalità viene normalmente fronteggiata dalle polizie e dagli eserciti, quindi, nella realtà delle cose, non è di per sé il vero problema per le borghesie dominanti, in quanto prima o poi la controllano – anzi, alcune loro frazioni ne traggono grandi benefici in termini di profitti provenienti dal lavoro nero e dalla criminalità che utilizza i clandestini per il suo lavoro più sporco. Inoltre, la distinzione tra migranti “economici” e “rifugiati politici” serve ad ogni governo per alzare una prima barriera al flusso migratorio incontrollato: no secco ai migranti economici – che sono la maggioranza assoluta dei migranti – e sì ai rifugiati politici, richiedenti asilo, per i quali, però, esistono talmente tanti passaggi e controlli prima di essere riconosciuti tali (il pretesto del “terrorismo” è utilizzato, in questi casi, a piene mani), che il loro numero inevitabilmente si riduce a poche centinaia. Resta in piedi, d’altra parte, il fattore ideologico legato alla democrazia e alla civiltà superiore che l’Europa diffonde nel mondo e che fa parte della propaganda borghese, la cui credibilità è ancora troppo importante nell’opera di influenzamento delle masse proletarie autoctone. Perciò i borghesi, in generale, pur non sempre coscientemente, si dividono i compiti: da un lato ci sono i sovranisti, i nazionalisti duri e cinici, e dall’altro ci sono i “buonisti”, gli umanitari, i democratici che continuano ad illudersi, e ad illudere, che la “buona volontà” e la naturale “umanità” dei cittadini di un paese civile e progredito possano controbilanciare la parte cattiva e cinica. “Prima gli italiani”, “American first”, “difendiamo i nostri confini”, “lottiamo contro l’illegalità”, “aiutiamoli a casa loro”, sono tutti slogan che coprono in realtà un nazionalismo borghese e imperialista che non è mai sopito e attraverso il quale ogni governo nazionale tenta di far valere, sia propagandisticamente che concretamente, gli interessi dei centri di potere economico-finanziari che lo esprimono a detrimento delle frazioni borghesi più deboli e, soprattutto, contro gli interessi elementari dei proletari autoctoni che, nel frattempo, si sono visti tagliare sempre più i famosi ammortizzatori sociali concessi in periodo di espansione capitalistica.

  

Nell’ottobre 2014, l’operazione Mare Nostrum è stata sostituita dall’operazione Triton (che faceva capo a Frontex, istituzione europea di “sorveglianza e difesa dei confini esterni” creata nel 2004, i cui scopi sommavano la lotta contro l’immigrazione clandestina con la lotta ai trafficanti di esseri umani, alla droga, al traffico di armi e la lotta al terrorismo internazionale), che però non si è mai dedicata veramente al soccorso in mare dei migranti in difficoltà. Se a questo reale disimpegno (nonostante il gran parlare di “diritti umani”) si aggiungono le barriere che gli Stati europei hanno alzato ai propri confini, protette dalle polizie e dagli eserciti, per impedire l’afflusso di migranti, in particolare sulla cosiddetta “rotta balcanica” che coinvolgeva, ad est tutti i paesi della ex Jugoslavia, e l’Ungheria, l’Austria, la Polonia e la stessa Germania, e, ad ovest, la Francia e la Spagna (per non parlare del muro diventato più famoso al mondo, quello statunitense tra gli USA e il Messico), si capisce qual è il valore reale che ogni borghesia dà ai “diritti umani”.

Non è perciò un caso che lo sceriffo nostrano abbia ricevuto i complimenti da Trump e, che tutti i capi di Stato europei, chi più platealmente – come l’ungherese Orban – chi più ipocritamente, siano interessati a quanto sta facendo il governo italiano, al di là dei normali litigi a sfondo nazionalistico tra gli uni e gli altri, se non altro perché le masse di migranti vengono tenute lontane dai confini di Santa Europa. L’obiettivo è sempre lo stesso: spostare il problema “immigrazione” dai paesi europei ai paesi della periferia europea, in particolare del Nord Africa e del Vicino e Medio Oriente, cosa che è già avvenuta con gli accordi, pagati salatissimi, con la Turchia rispetto ai milioni di profughi siriani causati da una guerra di rapina che vede coinvolte tutte le potenze imperialistiche del mondo. Questo spostamento nei paesi del sud del mondo imperialistico non risolverà affatto il problema “immigrazione”; anzi lo acutizzerà ancora di più e non tanto sul piano della “legalità” o “illegalità”, tanto caro alla giustizia formale borghese, quanto su quello delle turbolenze sociali che le fragili economie dei paesi della periferia imperialistica – su cui continueranno ad insistere gli interessi imperialistici legati al controllo delle risorse minerarie e delle zone strategicamente vitali dal punto di vista politico e militare – non riusciranno mai a controllare. Come sempre, le “soluzioni” che le borghesie dominanti trovano alle crisi della loro società, si trasformano, prima o poi, in fattori di crisi ancor più devastanti.

Non c’è dubbio che la libertà e la facilità con cui ogni borghesia nazionale attua le sue misure di protezione dei propri interessi – misure che si abbattono pesantemente sulle spalle dei proletari autoctoni e quelle delle masse diseredate e proletarizzate dei paesi della periferia imperialistica – sono frutto anche dell’assenza pressoché totale della lotta proletaria di classe. E’ dimostrato non solo storicamente, ma anche dagli avvenimenti di questo ultimo quarantennio – ossia dallo scrollone del moto proletario polacco del 1980, sconfitto in partenza dalle illusioni riformistico-pacifiste di Solidarnosc e dei partiti cosiddetti “operai” –, che l’assenza sullo scenario sociale e politico della lotta classista del proletariato ha permesso che ogni borghesia nazionale avesse le mani più libere nello sperimentare le più diverse politiche, più o meno contraddittorie, di difesa dei suoi interessi specifici, sia a livello interno che a livello internazionale. Inevitabilmente, il crollo dell’Urss, falsamente socialista, con il passaggio dei regimi dei paesi est-europei dalla grinfie imperialistiche di Mosca a quelle di Washington, Londra, Parigi o Berlino, ha dato fiato ancor di più alle illusioni di una democrazia “rinata” dalle ceneri di un comunismo mai esistito, continuando a deviare i proletari sul terreno su cui vince sempre, inesorabilmente, la borghesia. La stessa crisi scoppiata tra il 2007 e il 2008 negli Stati Uniti, e diffusasi rapidamente in tutto il mondo, prolungandosi per molti anni, fino al 2015, crisi che innescò altre guerre di segno imperialistico, come in Libia e in Siria, fece saltare vecchi equilibri imperialistici nel tentativo di sostituirli con nuovi equilibri che, in realtà non si sono ancora creati. Nel frattempo, a causa delle devastazioni della crisi economica crollavano regimi pluridecennali, in Tunisia e in Egitto (le famose “primavere arabe”), e mettevano a soqquadro la Siria, ma venivano sostituiti da regimi altrettanto prezzolati e venduti alle forze imperialistiche storiche, come quelle americane, franco-inglesi e russe, ma alle quali si accompagnavano altre forze imperialistiche regionali, quali l’Iran e la Turchia. E mentre i proletari d’Europa continuavano ad essere soggiogati dalle forze opportuniste inneggianti alla democrazia e alla civiltà cristiana, le masse proletarie arabe, illuse e indebolite da una democrazia inesistente, venivano investite dalla reazione islamista sovranazionale e dalle conseguenze di una crisi economica che non finiva mai, spingendole a fuggire, insieme alle masse pauperizzate dell’Africa centrosettentrionale, dai loro paesi nei quali le uniche certezze erano la fame e la morte.

L’opulenta Europa si è accorta che l’immigrazione era un suo “problema” quando la pressione di tale migrazione dall’Africa e dal Medio Oriente, da episodica è diventata continua e inarrestabile. Le conseguenze delle devastazioni che il vecchio e il nuovo colonialismo europeo, al quale nel tempo si sono aggiunti quello americano e quello russo, hanno provocato in quei vasti territori, avevano cominciato a ritorcersi contro le metropoli della civiltà europea. Se vi fosse stato bisogno di un’ulteriore conferma della previsione marxista circa l’impossibilità da parte del capitalismo di risolvere le sue contraddizioni e, in particolare, del fatto che ogni “soluzione” che il capitalismo adotta per superare le sue crisi non fa che aggravare la situazione, riproponendo crisi sempre più devastanti, questi ultimi decenni ne sono la dimostrazione.

Il capitalismo, sia esso democratico, riformista, umanitario o sovranista, autoritario, totalitario o fascista, è e resta un regime reazionario, capace solo di soffocare la vita della maggioranza della popolazione mondiale al solo scopo di sopravvivere a se stesso, di distruggere e devastare al solo scopo di far profitto, di gettare come rifiuti masse umane che non è più in grado di sfruttare e dalle quali non è più in grado di estorcere plusvalore. La potenza del capitalismo sta proprio nella violenza economica, politica, sociale e militare che attua quotidianamente per sopravvivere a se stesso; una potenza che non può essere vinta se non da una forza altrettanto e ancor più potente: la forza rivoluzionaria del proletariato internazionale, ossia dei produttori di quel plusvalore che i capitalisti trasformano in profitto e che utilizzano per schiavizzare e reprimere sistematicamente i produttori della ricchezza sociale esistente, i lavoratori salariati, i proletari.

Il proletariato ha già dimostrato storicamente di essere quella forza: nelle rivoluzioni del 1848, nella Comune di Parigi del 1871, nella rivoluzione russa dell’Ottobre 1917, nei tentativi rivoluzionari degli anni Venti del secolo scorso in Germania, in Ungheria, in Italia. Quella forza potrà essere ritrovata solo alla condizione di ricollegarsi a quelle rivoluzioni, traendo tutte le lezioni dalle loro sconfitte; lezioni che possono essere tirate soltanto da una forza politica coerentemente marxista, come lo fu il partito bolscevico di Lenin, e che non devii mai – come invece avvenne con lo stalinismo – dalla rotta rivoluzionaria comunista. La storia non è mai stata linearmente progressiva; le società di classe che si sono susseguite nella storia sono state il risultato contraddittorio di uno sviluppo contrastante delle forze produttive, sviluppo che giungeva ad un certo apice per poi precipitare verticalmente sotto la pressione incontenibile di forze produttive che non riuscivano più ad essere bloccate dalle forme politiche e sociali che le classi dominanti avevano eretto per mantenere il loro potere. E’ la legge storica dello sviluppo delle forze produttive che può essere letta correttamente soltanto dal determinismo marxista. Il capitalismo ha già raggiunto da molto tempo, come ultima società divisa in classi antagoniste, quel progresso sociale e umano che termina in quel famoso apice, dopo di che è destinato a precipitare nell’inevitabile sconvolgimento rivoluzionario nel quale il proletariato risorgerà in tutta la sua potenza. I capitalisti, da parte loro, sentono che è questo il vero pericolo per la loro sopravvivenza e per il loro potere; sono ridotti a temere anche soltanto l’ombra di quel pericolo, ombra oggi rappresentata dalle masse diseredate e proletarie dei paesi della periferia dell’imperialismo; e litigano tra di loro sui mezzi e sulle misure da prendere per allontanarla il più possibile da sé, e magari seppellirla. Ma, alla stessa stregua dell’apprendista stregone, i borghesi, rappresentati da Trump o Merkel, Putin o Xi Jinping, Shinžo Abe o Theresa May, Macron o... Salvini, non sono che i figuranti di una realtà ben più potente delle loro singole volontà e dei loro singoli cervelli: essi non sono che gli attuali rappresentanti del modo di produzione capitalistico, e spesso sono essi stessi di intralcio alla legge ferrea del profitto capitalistico tanto da essere sostituiti da altrettanti figuranti che, comunque, non saranno mai in grado di guidare e condizionare lo sviluppo capitalistico perché quest’ultimo non è condizionabile, non è riformabile, ma può essere solo sostituito integralmente da un modo di produzione completamente opposto, un modo di produzione che metterà al centro le esigenze della vita sociale dell’umanità e non il profitto capitalistico, che non dovrà devastare il pianeta e non dovrà massacrare miliardi di esseri umani per rincorrere il profitto più alto di cui goda soltanto l’estrema minoranza della popolazione mondiale. Il capitalismo non cadrà da solo, non decrescerà gradualmente fino a cambiare direzione; per quanto i suoi rappresentanti più intelligenti e lungimiranti cerchino, rispetto al pericolo di colasso dell’economia, di attuare politiche di contenimento della voracità di profitto che in ogni paese capitalista detta le condizioni generali, la legge del valore, che caratterizza il capitale e la società borghese, l’avrà sempre vinta. Il capitalismo, distruggendo le società precedenti basate sul feudalesimo, sull’economia naturale, sul dispotismo asiatico, ha dato alla società umana un enorme progresso: la tecnica, il macchinismo, il lavoro associato, l’universalizzazione di un unico modo di produzione; ha ridotto la società divisa in classi al minimo: classe capitalistica da un lato e classe proletaria dall’altro, ma ha prodotto, nello stesso tempo, non solo i mezzi tecnici e tecnologici, come si usa dire oggi, che alleviano tendenzialmente molta fatica da lavoro, ma ha applicato i ritrovati scientifici alla produzione associata, ampliando enormemente, nel suo sviluppo, le possibilità di progresso industriale che, per motivi di profitto e di concorrenza, è costretto invece a limitare sempre più. Non solo, dunque, distrugge ambiente, risorse, vite umane, ma limita anche se stesso, rendendo la stragrande maggioranza della popolazione mondiale un accessorio della sua macchina di profitto. Il capitalismo è quindi costretto a procedere in una spirale micidiale nella quale gli esseri umani fanno la stessa fine dei vecchi arnesi da lavoro ormai inutilizzabili. Le masse di diseredati e di proletari che fuggono dai paesi della periferia dell’imperialismo alla ricerca di un paese dove finalmente sopravvivere, per i nostri sceriffi non sono che... vecchi arnesi da lavoro ormai inutilizzabili.

I proletari autoctoni, i proletari europei e americani che hanno vissuto e vivono in paesi in cui la democrazia li ha abituati a sperare in un futuro “migliore”, hanno di fronte i migranti che hanno avuto il coraggio di affrontare pericoli di ogni sorta pur di scappar via da situazioni insostenibili, migranti che rappresentano oggi quello che può essere il loro vero futuro. Le crisi economiche stanno già facendo emergere nei paesi industrializzati milioni di persone sotto la soglia di povertà; e mentre le guerre che le forze imperialiste stanno combattendo, direttamente o per procura, nei vari paesi alla propria periferia, dimostrano che non c’è pace sotto il capitalismo, sempre più i proletari autoctoni constatano, direttamente e attraverso le giovani generazioni, che un “futuro” per loro non esiste: si è costretti a vivere alla giornata!

La ribellione a queste condizioni è inevitabile; i proletari autoctoni non devono vedere nei proletari immigrati un peggioramento delle loro condizioni, non devono vederli come un pericolo per le loro “garanzie” – sono i capitalisti e il loro governo a sottrarle – ma devono vederli come i loro fratelli di classe insieme ai quali unirsi in un’unica lotta di resistenza al capitale. O si lotta, insieme, o insieme si precipita nell’abisso della pauperizzazione, della disoccupazione, dell’emarginazione sociale. La lotta di classe è l’unica soluzione che il proletariato ha a disposizione, in ogni paese, in ogni tempo, in ogni situazione, non importa il colore della pelle, la nazionalità, l’età o il sesso; e perché la lotta abbia un senso e un risultato è necessario organizzarsi insieme, in modo indipendente da ogni interferenza chiesastica, borghese o piccolo borghese. Tornare alle organizzazioni di soli proletari, come un tempo, è la strada giusta. Tornare a battersi esclusivamente in difesa degli interessi proletari, e solo proletari, è la strada giusta. Tornare a riconoscersi come forza antagonista alle forze del capitale, è il risultato della stessa lotta di classe, perché la classe borghese fa e farà di tutto – attraverso la chiesa, gli opportunisti, i falsi estremisti – per mimetizzare i suoi interessi e il suo odio per il proletariato con falsi richiami alla collaborazione interclassista, al popolo, alla causa comune, alla patria, alla pace sociale. Lottare contro la concorrenza tra proletari, costantemente alimentata dalla borghesia, deve diventare un obiettivo permanente per ogni proletario, perché è attraverso la concorrenza tra proletari, di diversa professionalità o genere, di diversa nazionalità o razza, che i capitalisti dominano il proletariato dividendolo e mettendo gli uni contro gli altri.

Tutto questo non è ancora la lotta rivoluzionaria del proletariato; ma senza questi passaggi, il proletariato non avanzerà mai di un passo, anzi, indietreggerà sempre più, lasciando mano libera ad ogni capitalista, ad ogni politicante, ad ogni governante.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

26 gennaio 2019

www.pcint.org

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