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Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                


 

Siria: interessi borghesi e imperialistici contrapposti alimentano di continuo una guerra senza fine. La macelleria mediorientale scatenata da tutti gli imperialisti e dalle potenze regionali è lo specchio di quel che offre il capitalismo in ogni paese!

 

 

Negli ultimi 8 anni, in Siria, si sono giocate le sorti delle varie fazioni borghesi siriane che tentano di accaparrarsi parte del potere vendendosi ora a questo ora a quell’imperialismo. Per ragioni capitalistico-politico-religiosi il clan di al-Assad è sempre stato sostentuo dall’Iran sciita, ma la vera forza per ristabilire un ruolo e un potere che stava perdendo sotto gli attacchi americano-anglo-francesi l’ha trovata nell’intervento e nel sostegno della Russia. Mosca, infatti, non solo ha le sue uniche basi navali e aeree strategiche del Mediterraneo in Siria, ma ha colto l’occasione di una relativa incapacità di Washington di coordinare sotto il suo comando i paesi della Nato (non solo Gran Bretagna e Francia, ma anche Turchia) per estendere la sua influenza sull’area mediorientale, pur non  avendo sotto controllo diretto alcun paese se non la Siria, o meglio, la parte della Siria che il regime di Damasco è riuscito finora a “riconquistare” in una guerra che, oltre agli imperialismi citati, ha visto e vede protagonisti il Daesh (detto Stato islamico, ISIS, o Califfato), il cosiddetto Esercito Libero Siriano (formazione araba pro-Turchia), la coalizione delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) con le Unità di Protezione Popolare curde (Ypg) e il suo braccio politico (il Partito dell’Unione Democratico, PYD), ossia la milizia curda sostenuta dagli USA ma considerata terrorista dalla Turchia. E così il ginepraio mediorientale si ripresenta sotto forme diverse, ma in un quadro nel quale sono aperte le soluzioni più contraddittorie e cambi di fronte e di alleanze repentini, rimettendo in discussione sistematicamente ogni posizione conquistata da un fronte piuttosto che da quello avverso e rendendo volatile ogni accordo preso tra imperialisti e forze locali, come il voltafaccia americano nei confronti dei curdi siriani dimostra ampiamente.

 

I NUOVI RUOLI DI RUSSIA E TURCHIA

 

Senza l’intervento della Russia, grazie al quale una parte della Siria si è “normalizzata” grazie alla brutalità conosciuta del regime di al-Assad, quest’ultimo è tornato a rappresentare una possibile opportunità di affari (armi, ricostruzione, petrolio), ma non per questo l’intero territorio che va dal Libano all’Iraq, alla Giordania e al Kuwait si è affrancato da situazioni di estrema conflittualità sia sociale (già coi movimenti della cosiddetta “primavera araba” si erano verificate situazioni difficilmente controllabili se non con sistematici massacri degli strati popolari e proletari che si ribellavano), sia di scontri armati nei quali inevitabilmente, di volta in volta, vengono coinvolti Iran, Israele, Arabia Saudita e Turchia, ossia le potenze regionali ciascuna delle quali ha mire di dominio e di espansione nell’ area mediorientale.

E mentre l’Arabia Saudita si è occupata dello Yemen, come può occuparsi una potenza capitalistica che non può sopportare ai propri confini regimi politici che intralcino i suoi interessi economici, l’Iran ha cercato di occuparsi della Siria, sostenendo in Siria, con i propri capitali e con le proprie coperture politiche (anche in Libano con gli Hezbollah, e a Gaza con Hamas), il clan di al-Assad, ma troppi interessi imperialistici si scontrano in terra siriana e da solo l’Iran non ce l’avrebbe mai fatta a salvare il regime di al-Assad. Ci voleva una potenza imperialistica che avesse forti interessi strategici nell’area, ma che non fosse coinvolta apertamente nelle guerre mediorientali precedenti (le due guerre del Golfo, gli scontri tra Stati arabi e Israele, la repressione sistematica delle popolazioni palestinesi o curde) e che avesse udienza diplomatica e godesse di un certo rispetto nelle cancellerie di Teheran, di Damasco, di Ankara, di Amman, di Beirut. Ed ecco l’occasione per la Russia, ma anche per la Turchia che, con la politica dei tre tavoli (USA, Unione Europea, Russia) sui quali giocare contemporaneamente tre partite diverse, poteva finalmente azzardare un ruvido confronto non solo con l’Unione Europea, ma anche con gli USA e la stessa Russia. La moneta di scambio, e il ricatto, che la Turchia di Erdogan sta usando da anni nei confronti dell’Europa sul tema dei flussi migratori (più di due milioni di migranti fuggiti da ogni parte dell’Africa e dell’Asia sono stati bloccati nei confini turchi del sud dietro pagamento di 3 miliardi di euro, e ci sono notizie che parlano addirittura di 6 miliardi di euro) perché non proseguissero il loro tragico cammino verso i paesi d’Europa; nei confronti degli USA, sul tema della libera decisione di fare la guerra non solo ai curdi del PKK in qualsiasi paesi si rifugino (perciò non solo in Turchia, ma anche in Siria e in Iraq), ma anche sulla libertà di contrattare, ad esempio con la Russia, al di fuori delle sanzioni decise da Washington, acquisti e vendite di armi e prodotti vari, sebbene essa non solo faccia parte delle forze Nato, ma abbia nel proprio territorio anche una dozzina di basi americane e Nato, compresa la presenza di 50 bombe nucleari B-61 (1) nella base aerea di Incirlik.

L’iniziativa militare iniziata dalla Turchia il 9 ottobre scorso ha per obiettivo la formazione di una larga zona cuscinetto sul confine con la Siria (480 km di lunghezza per 30 km di profondità in territorio siriano), da nord-ovest (città di Afrin) fino all’estremo nord-est (città di Derik e di Sabah el Hayr) ai confini con l’Iraq. Il pretesto è il solito: combattere il PKK curdo non solo nella zona meridionale della Turchia (il Kurdistan turco) che confina con Siria e Iraq, ma anche in territorio siriano (la regione del Rojava) e in territorio iracheno. La mira espansionista della Turchia è lampante: visto che al-Assad non è stato eliminato, cosa di cui avrebbe approfittato per stendere la proprio influenza su tutta la Siria, si accontenta di creare le cosiddette “zone cuscinetto” – come ha fatto Israele in tutti i decenni di guerra contro i paesi arabi, a nord verso il Libano, nel Golan siriano, e a sud nella penisola del Sinai, per non parlare della frammentatissima Cisgiordania – zone che servono per allargare il proprio controllo spostando i confini reali nei territori dei paesi limitrofi. Nei confronti dei curdi, inoltre, il disegno permanente della Turchia è di impedire quasiasi formazione territoriale autonoma, per non dire indipendente, che desse l’idea di una prossima o futura costituzione di uno Stato curdo. Israele insegna: non accettare mai la reale formazione di uno Stato “palestinese”, e se si è obbligati ad accettarla sotto pressione degli imperialismi padroni del mondo e sotto pressione della lotta armata delle milizie combattenti palestinesi, accettarla solo formalmente per poi calpestarla e distruggerla praticamente, soffocando economicamente, politicamente e reprimendo sistematicamente l’intera popolazione che agogna ad una sua indipendenza. In più, la Turchia detiene un’ulteriore arma che usa, per l’enensima volta, come una “soluzione” che metterebbe al riparo la situazione di conflitto attuale da ulteriori destabilizzazioni: i profughi siriani, fuggiti durante questi 8 anni di guerra civile e riparati in Turchia dove sono stati sistemati, come buoi destinati al macello, ai confini con la Siria e ammontano a più di 5 milioni. Una massa consistente usata come “cuscinetto” sia contro i curdi del Rojava, sia contro il regime di al-Assad.

 

I CURDI STANNO SULLO STOMACO A TUTTI I BELLIGERANTI

 

I curdi continuano a rappresentare una spina nel fianco che la Turchia vorrebbe distruggere per sempre. L’Isis, dal 2014, aveva conquistato un vasto territorio che dal Nord della Siria (Idlib) si estendeva per tutto il territorio al confine con la Turchia, toccando Raqqa (che diventò per un certo tempo la “capitale” dello Stato islamico), e andava verso il nord dell’Iraq, costituendo in questo modo una specie di Stato sopranazionale contro cui si lanciarono tutti gli imperialisti, e per il quale le potenze regionali (Turchia, Iran, Arabia Saudita, Israele) hanno mostrato atteggiamenti estremamente ambigui: da un lato, lo sostenevano di nascosto, favorendo gli spostamenti delle formazioni djadiste (il nemico del tuo amico è nemico finché non diventa amico), da un altro lato lo combattevano (più a parole che nei fatti) perché dovevano dimostrare, chi agli americani e chi ai russi, che non li avrebbero contrastati nella loro lotta contro il terrorismo di Daesh (un terrorismo che andava ad operare anche fuori dei confini siriano-iracheni e che attirava i cosiddetti foreign fighters sia dai paesi auropei che dai paesi del nord Africa – Tunisia soprattutto – e dell’Asia). In effetti lo Stato islamico è stato battuto militarmente più dalla coalizione USA-Milizie curde siriane, che con la presa di Kobane, oltre che di Raqqa, dettero un colpo mortale all’Isis, che non dalla coalizione russo-siriana anche se al-Assad aveva interesse a riconquistare i territori del nord sottratti al suo controllo proprio dall’Isis, ma anche dai curdi.

In realtà, tutte le potenze coinvolte nella guerra siriana, chi più chi meno, hanno interesse a soffocare l’ambizione curda a costituire un suo Stato indipendente; troppi contrasti tra Turchia e Curdi, troppi contrasti tra Russia e USA in Medio Oriente, troppi contrasti tra Iran e USA, e troppi tra Israele e Iran, dunque anche tra Israele e al-Assad e, quindi, tendenzialmente anche con la Russia. La costituzione di uno Stato curdo indipendente, non solo per queste ragioni, ma anche per i contrasti interni tra le varie fazioni borghesi curde e per un passato fatto di continue sottomissioni ora ad una potenza imperialista ora ad un altra, non vedrà mai la luce, come non poteva vedere e non ha visto la luce un effettivo Stato indipendente palestinese. Per quanto i combattenti delle varie formazioni armate curde dimostrino una certa continuità e tenacia nel difendersi dalla repressione e dagli attacchi dei vari Stati in cui sono divisi (Turchia, Siria, Iraq, Iran), non riusciranno nel loro intento indipendentista visto che la loro sorte dipende soprattutto dalla protezione o dalla mancanza di protezione di questo o di quell’imperialismo. E’ chiaro, per noi, da sempre, che l’unica via d’uscita dalle guerre borghesi e interborghesi in cui vengono coinvolte le popolazioni, come i curdi o i palestinesi, non sta di certo nelle decisioni stabilite all’ONU (rivelatesi sempre carta straccia) o negli accordi tra pescecani, non importa se situati a Washington, a Mosca, a Londra, a Parigi, a Berlino, ad Ankara, a Teheran, a Riyadh o a Pechino. Finché i proletari dei diversi paesi mediorientali non prenderanno nelle proprie mani le loro sorti, scendendo sul terreno della lotta classista in difesa esclusivamente dei propri interessi di classe contro ogni borghesia, contro ogni forza conservatrice ed ogni forza imperialista, la prospettiva per le stesse popolazioni mediorientali sarà sempre una prospettiva di guerra, di massacro, di miseria, di fame, di deportazione, di fuga dalla propria terra e di asservimento agli interessi di ogni borghesia e di ogni fazione borghese che ora si vende ad una potenza e ora si vende alla potenza opposta. Una lotta classista che dovrà contare sulla stessa lotta antiborghese che i proletari dei paesi imperialisti europei, americano, russo o cinese dovranno scatenare contro le proprie opulente borghesie che si nutrono del loro sfruttamento e del loro sangue anche se hanno concesso loro condizioni di lavoro e di esistenza appena sopra la soglia di povertà. E’ soltanto nella prospettiva proletaria rivoluzionaria di classe, al di sopra delle diverse nazionalità, e perciò internazionalista, che le questioni “nazionali” ancora aperte, come nel caso dei curdi e dei palestinesi, potranno essere affrontate e risolte perché primeggerà la lotta contro ogni oppressione borgehse e capitalistica.

Mentre Washington continua nella sua politica di relativo ritiro dal Medio Oriente in termini di controllo diretto con proprie truppe a terra, e cerca di difendere i propri interessi strategici attraverso l’attività delle potenze regionali come Israele, Arabia Saudita e Turchia, la Russia tenta di radicare la propria influenza non solo attraverso la Siria di al-Assad, ma anche attraverso i nuovi rapporti politici e diplomatici con Turchia e Iran; anzi, con la Turchia ha fatto un passo in più, concordando con Erdogan, fin dal 2017, un’importante fornitura del sistema missilistico di difesa antiaerea S-400, ritenuto dagli esperti militari tra i più avanzati al mondo, in consegna proprio in questi ultimi mesi del 2019. La cosa ovviamente ha fatto imbestialire Washington che ha promesso una caterva di sanzioni e l’esclusione della Turchia dal programma dei suoi cacciabombardieri F-35. Ma Erdogan è andato dritto per la sua strada e, per il momento, gli USA si sono astenuti dall’andare giù pesanti contro di lui, anche perché non hanno interesse a inimicarsi la Turchia che ancor oggi risulta una pedina indispensabile nello schieramento Nato verso il Medio Oriente e la Russia, e nemmeno ad acutizzare il contrasto con la Russia, riprendendo la guerra contro al-Assad – nemico sia degli USA che della Turchia – in una situazione in cui era già stato deciso (anche da Obama) che non valeva la pena di scontrarsi con la Russia e l’Iran per la Siria. Come sempre, mentre le potenze capitalistiche e imperialistiche fanno e disfano a seconda degli interessi contingenti che premono di più, chi ci va di mezzo è la popolazione civile, e la popolazione curda anche questa volta ha subito ennesimi  massacri.

Negli ambienti militari e politici americani, la decisione del presidente Trump di ritirare i propri soldati dalla Siria (ma per rafforzare la presenza militare americana in Iraq in difesa dei pozzi petroliferi), col pretesto che ormai la guerra contro l’Isis è stata vinta, ha trovato opposizione, non solo perché i militari, e i politici loro portavoce, contano sul fatto di essere impegnati in molti fronti di guerra (ne va delle carriere, degli investimenti in armamenti e in potere politico interno), e non solo perché prevedono che l’Isis, anche se è stato battuto militarmente, e anche se il suo grande capo Al Baghdadi, individuato nella zona di Idlib, è morto (2), può contare ancora su molti miliziani sparsi nella regione di Idlib e in altre regioni della Siria e dell’Iraq, e dare quindi ancora molti problemi non solo in Siria ma, attraverso il rimpatrio dei foreign fighters, anche nei paesi occidentali; ma anche perché gli USA si sono fatti superare dalla Russia sia nella conduzione di una guerra che avrebbe dovuto far fuori al-Assad (come sono stati fatti fuori Saddam Hussein in Iraq e Gheddafi in Libia), e invece l’intervento russo lo ha salvato e gli ha ridato forza e potere, sia nella gestione delle operazioni militari della Turchia della quale Washington sta subendo in realtà l’iniziativa. Se lo spostamento dei militari americani dalla zona di confine tra il Rojava e la Turchia ha facilitanto l’operazione militare turca per occupare la lunga fascia di confine in terra siriana e per dare una mazzata significativa alle milizie curde che operano in quel territorio, dall’altra però ha rimesso in gioco le forze militari russe che sono andate nella stessa fascia di confine a protezione del suo alleato al-Assad e, obtorto collo, dei curdi siriani. Fatti i conti, la Turchia da questa sua operazione non ha ottenuto quel che ambiva ottenere, perciò si può dire che è stato più un azzardo che una mossa che le consentiva davvero di allargare il territorio controllato in terra siriana, perché lo deve condividere con i russi, e perché i curdi li ha fatti solo ripiegare più all’interno, ma non li ha sconfitti.

Resta il fatto che la guerra in Siria, un paese di 18 milioni di abitanti, in questi 8 anni, ha fatto più di 400mila morti, ha costretto più di 5 milioni di profughi a riparare all’estero – per la maggior parte finiti in bocca alla Turchia – ed altri 6 milioni di siriani alla condizione di sfollati interni; e la fine di questa guerra devastante non si vede, a dimostrazione che sotto il regime borghese e capitalistico, non solo per i proletari, ma per la stragrande maggioranza della popolazione dei paesi in cui i contrasti interborghesi e interimperialistici prendono le caratteristiche del conflitto armato, non ci sono alternative: o il proletariato riconquista il terreno della lotta di classe e si riorganizza in modo indipendente da qualsiasi altra classe o mezza classe della società, con l’obiettivo di lottare per il potere politico, dunque per la rivoluzione, oppure il proletariato, e con lui tutti gli strati sociali che vengono colpiti dalla crisi e dalla miseria economica, continueranno a subire la condizione di essere massa da sfruttare in tempi di pace e carne da cannone in tempi di guerra.

 

UNA PAROLA SULLA “QUESTIONE NAZIONALE” CURDA

 

Come abbiamo sempre sostenuto, lo sviluppo imperialistico del capitalismo non solo non ha risolto il problema dell’indipendenza nazionale di tutti i popoli esistenti al mondo, ma lo ha incacrenito, acutizzando ancor di più l’oppressione non solo dei popoli che non sono riusciti storicamente ad elevarsi a nazione e a Stato indipendente, ma anche di moltissimi popoli che questo Stato indipendente lo hanno conquistato attraverso durissime lotte di liberazione nazionale e rivoluzioni nazionali, ma che non hanno avuto lo sviluppo – e non potevano averlo per le stessi leggi di sviluppo del capitalismo – che ha cartterizzato i paesi di più vecchio e avanzato capitalismo. Sui casi costituiti, ad esempio, delle popolazioni palestinese e curda, per le quali abbiamo chiaramente affermato che il tempo storico della loro emancipazione nazionale è ormai passato, abbiamo anche ribadito che la posizione marxista non è quella di cancellare l’esistenza della “questione nazionale”, visto che quelle popolazioni continuano a subire una sistematica oppressione nazionale, di fronte alla quale la risposta non può che essere dialettica. I comunisti ribadiscono, con Lenin: incondizionato riconoscimento della lotta per la libertà di autodecisione da parte di una nazione che soffre sistematicamente l’oppressione nazionale – e spesso da parte di più potenze borghesi contemporaneamente – ma, nello stesso tempo, propugnano e lottano per l’unificazione dei proletari di ogni nazione, di ogni paese, per la lotta contro ogni borghesia nazionale e contro ogni classe possidente di tutte le nazionalità (3).Ciò non toglie, anzi rafforza la prospettiva del programma proletario comunista, che è un programma di classe e per il quale il partito di classe chiama i proletari di tutti i paesi ad unirsi aldisopra delle nazionalità; ma sarebbe un grave errore politico, come lo era ai primi del Novecento quando Lenin scriveva sulla questione nazionale (4), se i comunisti rivoluzionari non tenessero conto “di tutte le possibili combinazioni, persino di quelle concepibili in generale” e non sostenessero “il riconoscimento del diritto delle nazioni all’autodecisione”, anche se quelle nazioni non hanno e non avranno mai la forza di attuarla prima dell’avvento della rivoluzione proletaria internazionale.

Annegare la lotta proletaria per i propri obiettivi di classe nella lotta di tutto il popolo perché questo “diritto delle nazioni all’autodecisione” venga riconosciuto da tutte le potenzi capitalistiche e imperialiste, è posizione opportunista e traditrice della classe proletaria; ma lo è anche negare totalmente l’esistenza di una “questione nazionale” per tutti i popoli oppressi, negando perciò quel “diritto delle nazioni all’autodecisione”, perché, di fatto, si sosterrebbe che il programma rivoluzionario della dittatura proletaria instaurata a rivoluzione proletaria vittoriosa, sotto il vessillo di una unità “nazionale” del tutto falsa, continuerebbe la politica di oppressione borghese nei confronti di quelle popolazioni. L’esempio dato dalla dittatura bolscevica rispetto a tutti i popoli che lo zarismo opprimeva è emblematico: mentre si riconosceva il diritto delle nazioni all’autodecisione (perciò l’unione socialista delle repubbliche era il risultato non del formale “cambio di governo” al potere, ma di un’adesione reale della maggioranza della popolazione al sostegno delle repubbliche socialiste), si incitava il proletariato a lottare contro ogni oppressione borghese, contro ogni oppressione di una nazione su di un’altra, ma sulla base della sua lotta di classe, a livello nazionale come a livello internazionale, quindi contro ogni borghesia nazionale. Propagandare da parte dei comunisti rivoluzionari, contemporaneamente il diritto delle nazioni all’autodecisione e la necessità da parte dei proletari della nazione oppressa di unirsi con i proletari della nazione opprimente in un’unica lotta di classe contro la classe borghese di ogni nazionalità, significa voler dimostrare ai proletari della nazione oppressa e opprimente che il loro interesse di classe è nella lotta contro la reciproca borghesia, ma anche che il potere proletario rivoluzionario di domani non sarà un potere che opprime le nazioni più deboli, ma un potere che lotta senza tregua contro gli oppressori per eccellenza, i borghesi a qualsiasi nazionalità appartengano. Significa, inoltre, dare al proletariato della nazione oppressa una prospettiva di classe allacciando la loro lotta contro l’oppressione alla lotta dei proletari della nazione opprimente, con l’obiettivo di contrastare la presa che la borghesia della nazione opprimente ha sul proprio proletariato attraverso il godimento di qualche piccolo privilegio sociale basato sull’oppressione del popolo dominato, e contrastare la presa che la borghesia della nazione oppressa ha sul proprio proletariato attraverso la politica dell’“interesse comune”, in quanto “oppressi” entrambi da un’altra nazione, sapendo che questa borghesia anela ad una indipendenza per poter sfruttare a pieno titolo il proprio proletariato. Posizione dialettica, dicevamo, che molti sedicenti comunisti non afferrano, come nel caso di coloro che continuano a stampare “il programma comunista”.

Già nel 1994 “il programma comunista” aveva pubblicato un articolo, intitolato “Quali prospettive di emancipazione del torturato popolo curdo?, nel quale si sosteneva che la lotta nazionale curda era condannata storicamente, in quanto lotta puramente nazionale e che una soluzione reale a questo dramma storico poteva essere offerta soltanto da una rivoluzione anticapitalista estesa a tutto il Medio Oriente; una rivoluzione che sarebbe stata possibile grazie all’opera dei comunisti affinché “una punta avanzata dell’unica forza politica curda che si batta conseguentemente contro l’oppressore – il PKK – si sprigioni e, spingendosi oltre i limiti della lotta di resistenza nazionale, si ponga all’avanguardia della lotta rivoluzionaria proletaria e comunista per l’abbattimento dell’intero apparato borghese di dominio in tutto il Medio Oriente” (5), come se il partito proletario di classe, il partito comunista rivoluzionario, potesse formarsi dalla costola di un partito borghese; a questo articolo rispondemmo con l’articolo citato nella nota 3. Oggi, di fronte all’ennesimo massacro della popolazione curda, lo stesso giornale pubblica nel suo sito una presa di posizione molto sentimentale, ma politicamente egualmente disatrosa (6). Rivolgendosi direttamente ai proletari curdi, e dopo aver denunciato i misfatti delle borghesie imperialiste e delle stesse fazioni borghesi curde, “il programma comunista” alza la voce, come fa papa Francesco quando declama dalla famosa finestra di San Pietro quello che la gente deve fare per salvare il mondo: “Sorelle e fratelli proletari, trasformate l’ormai inutile arma della rivolta nazionale nella lotta per la preparazione della rivoluzione proletaria internazionale” e via con una serie di indicazioni ultimatiste: distruggere lo Stato imperialista e democratico per edificare sulle sue macerie lo Stato senza frontiere del proletariato internazionale, Opporre alla guerra fra gli Stati capitalisti e all’inganno delle patrie la guerra tra la nostra classe (i proletari internazionali, senza riserve) e tutte le borghesie nazionali, Trasformare la guerra imperialista borghese in rivoluzione proletaria comunista...

Forse non ci siamo accorti di essere entrati in una situazione rivoluzionaria, in cui esistono – non solo tra i curdi – ma almeno nei diversi paesi del Medio Oriente e nei paesi europei, associazioni economiche proletarie di classe che organizzano la maggioranza dei proletari, un partito comunista rivoluzionario presente nei diversi paesi e con un’influenza significativa tra i vari proletariati, una situazione sociale tale per cui i proletari, avendo accumulato negli anni l’esperienza necessaria per organizzarsi per la guerra di classe contro la borghesia, siano già lanciati oggettivamente sul terreno della lotta di classe per il potere, e una situazione in cui i poteri borghesi esistenti almeno in un certo numero di paesi siano effettivamente indeboliti dalle crisi e dalle guerre. Le parole d’ordine rivoluzionarie, ammoniva Lenin, non vanno sprecate! Ma quali sono le forze politiche che dovrebbero condurre i proletari a “trasformare l’ormai inutile arma della rivolta nazionale nella lotta per la preparazione della rivoluzione proletaria internazionale”?; un tempo “il programma comunista” aveva individuato nel PKK l’organizzazione politica da cui sarebbe nato, come Minerva dal cervello di Giove, il vero partito comunista rivoluzionario, ma oggi non se la sente di rifare lo stesso errore, e allora ne fa un altro, diverso: scende direttamente alla base ipotizzando che i proletari in quanto tali siano in grado spontaneamente, senza guida politica del partito di classe, di traformare la guerra “nazionale” in guerra “rivoluzionaria”. A che servirebbe, dunque, il partito comunista rivoluzionario?

“Il programma comunista”, è in ogni caso coerente con la posizione antileninista che aveva già assunto venticinque anni fa: la “questione nazionale” per i curdi, come per i palestinesi? Non esiste. Il diritto delle nazioni all’autodecisione, nel senso di Lenin? Decaduto, i proletari sia delle nazioni oppresse che delle nazioni che opprimono devono rendersi conto (ci pensa “il programma comunista” a ricordarlo) che, ormai, l’unica cosa che devono fare è unirsi internazionalmente (il fatto che non riescano ad unirsi sul terreno di classe nemmeno nazionalmente, non conta evidentemente, con buona pace di Marx ed Engels e del Manifesto). E, ovviamente, non importa se i proletari curdi, siriani, iracheni, turchi, iraniani, palestinesi, libanesi, giordani, israeliani – tanto per rimanere nell’area Mediorientale nella quale dovrebbe nascere la rivoluzione proletaria internazionale – non sono ancora riusciti a rompere con le proprie borghesie, e quindi non sono riusciti a superare la stessa concorrenza tra proletari che, partendo dalla base economica delle loro condizioni, è uno degli inciampi più difficili da eliminare, ma che produce i vincoli interclassisti che impediscono ai proletari di riconoscersi come classe distinta e antagonista alla classe borghese prima di tutto della propria nazione. Basta declamare grandi parole rivoluzionarie...  e ci si mette a posto la coscienza. Non solo, ma ci si prende anche il lusso di squalificare completamente, in quattro parole, la lotta curda per l’indipendenza nazionale. Come si sarebbe rivolto Lenin ai curdi, e ai proletari curdi in particolare, se non ribadendo la posizione sulla quale ha combattuto per anni all’interno stesso del partito bolscevico, e che abbiamo ricordato velocemente prima? “Il programma comunista” ha cancellato Lenin? Anche se non l’ha fatto formalmente, comunque non l’ha capito.

Il “nazionalismo” di un popolo (proletariato compreso) oppresso da sempre è ben diverso dal nazionalismo della borghesia dei paesi capitalistici già formati da tempo. E’ di quel “nazionalismo” che si occupava Lenin quando trattava la questione del diritto delle nazioni all’autodecisione. Noi, come accennavamo sopra, sappiamo che la strada che i proletari nei paesi del Medio Oriente, e in particolare i proletari delle popolazioni oppresse come i curdi e i palestinesi, è irta di difficoltà oggi ancora insormontabili tanto più per loro in quanto è proprio il proletariato dei paesi capitalistici più avanzati che è fermo, che non ha ancora nemmeno accennato ad una sana rottura con l’interclassismo e con le pratiche democratiche. E’ possibile che la rinascita del movimento proletario rivoluzionario venga dai paesi della cosiddetta periferia dell’imperialismo? Che venga addirittura da proletariati che non sono nemmeno inseriti in una nazione riconosciuta e formata con un suo Stato indipendente? Davvero difficile, ma come diceva Lenin, il partito rivoluzionario “non si lega affatto le mani. Esso tiene conto di tutte le possibili combinazioni, persino di tutte quelle concepibili in generale, quando sostiene nel suo programma  il riconoscimento del diritto delle nazioni all’autodecisione (...) Esso esige solo che un partito effettivamente socialista [socialista, allora era sinonimo di comunista, marxista, NdR] non corrompa la coscienza proletaria, non offuschi la lotta di classe, non lusinghi la classe operaia con frasi democratiche borghesi, non violi l’unità dell’odierna lotta politica del proletariato. Proprio questa condizione, che è l’unica in base alla quale noi riconosciamo l’autodecisione, è la più importante” (7). Oggi potremmo aggiungere che un partito effettivamente comunista rivoluzionario non deve lusingare la classe operaia, e i proletari in generale, con frasi formalmente rivoluzionarie, appese soltanto al desiderio di essere verbalmente più rivoluzionari di Lenin, ma di fatto affascinati romanticamente soltanto da un combattentismo armato che è caratteristico degli strati piccoloborghesi che influenzano e dirigono buona parte delle milizie curde. I proletari curdi, oggi come ieri, sono ancora invischiati nelle illusioni democratiche borghesi e continuano ad offrire alla propria borghesia “nazionale” le loro braccia e le loro vite a difesa di interessi che sono esclusivamente borghesi, anche nella situazione di etnia oppressa. Il primo passo che devono fare per acquisire una prospettiva di lotta e di vita del tutto opposta  è quello di rompere i legami con la propria borghesia, di lottare contro le illusioni democratiche e interclassiste veicolate dalle forze di conservazione borghese, e di organizzarsi in modo indipendente da ogni apparato legato agli interessi della propria borghesia e degli imperialismi ai quali essa si affitta di volta in volta. Se non fa questo passo, non potrà mai aspirare a lottare per trasformare la guerra borghese in guerra di classe, non potrà mai aspirare a lottare fianco a fianco con i proletari delle altre nazionalità sullo stesso terreno di classe e internazionale.

 


 

(1)   La base aerea di Incirlik, nota anche come base aerea di Adana, si trova vicino al Porto di Tasucu, sul Mediterraneo, ed è indiscutibilmente la base americana più importante in territorio turco. In essa sono presenti 50 bombe termonucleari B-61 a caduta libera, bombe “a campo di resa variabile”, ossia programmabili prima della detonazione su una specifica potenza compresa tra gli 0,3 e i 340 kilotoni, del peso ognuna di 320 kg. Vedi www.armietiro.it/turchia, e https://it.sputniknews.com/infografica/201712065369538-infografica-basi-usa-nato-in-siria

(2)  Notizia dell’ultima ora mentre scriviamo. Vedi ilfattoquotidiano.it del 27/10/2019.

(3)  Cfr. Curdi: emancipazione del popolo curdo, o del proletariato curdo?, in “il comunista” n, 43-44, ottobre 1994-gennaio1995. vedi in www.pcint.org, il comunista.

(4)  Vedi ad esempio Lenin, “La questione nazionale nel nostro programma”, 1903, in Opere, vol. 6, pp. 420-428.

(5) Cfr. “il programma comunista”, n. 1, gennaio 1994

(6) Vedi Rabbia, commozione e solidarietà per le proletarie e i proletari kurdi sotto il fuoco degli imperialismi, ottobre, “il programma comunista”, www.internationalcommunistparty.org.

(7) Vedi nota 4.   

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

28 ottobre 2019

www.pcint.org

 

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