Back

Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                


 

I proletari, non hanno nulla da spartire né con i borghesi al governo né con i borghesi all’opposizione, ma hanno una tradizione classista antiborghese e anticapitalistica da riconquistare!

 

 

La forte crisi sanitaria, dovuta all’epidemia di Covid-19, fin dalla sua iniziale diffusione, ha reso evidente che la crisi economica che già stava colpendo molti paesi imperialisti si sarebbe velocemente aggravata. E così è stato, a partire dalla Cina, per poi rovesciarsi in tutta l’Asia, l’Europa, l’America e in Africa. Una crisi economica che i vari istituti economici e finanziari del mondo prevedono addirittura più brutale della crisi del 1929.

Il capitalismo non lascia scampo: più si sviluppa, si accelera e si allarga nel mondo la produzione di merci e di capitali, e più rapidamente va incontro alle crisi di sovraproduzione. I mercati di sbocco delle merci e dei capitali, non dando più il tasso di profitto cercato, si intasano scatenando inevitabilmente una guerra di concorrenza sempre più acuta. La ricerca spasmodica della valorizzazione del capitale, che, in ogni paese, porta a produrre a costi sempre più contenuti e ad alzare la produttività del lavoro (perciò lo sfruttamento della classe salariata) ai massimi livelli possibili, va a cozzare ciclicamente contro l’impossibilità di rendere “eterno” lo sviluppo della valorizzazione del capitale poiché le masse di merci e di capitali prodotti, ad un certo punto non trovano sufficienti mercati di sbocco e di investimento redditizio. Così, arriva il momento in cui la sovraproduzione capitalistica detta la sua legge: merci invendute, capitali non investibili in modi redditizi e lavoratori salariati non sfruttabili vanno distrutti per lasciar posto a nuovi cicli produttivi e a nuova valorizzazione del capitale. E’ la contraddizione di base del modo di produzione capitalistico: costruisce per distruggere e per ricostruire nuovamente e ancora ridistruggere, in una spirale continua fino a spezzare ogni meccanismo di scambio e di compensazione, mandando all’aria accordi e trattati, rapporti commerciali e politici e aprendo così la fase successiva alla guerra guerreggiata che è il modo per distruggere in pochi anni quantità gigantesche di merci, di capitali e di proletari.

Con la crisi mondiale del 2008-2009, innescata nel 2007 dai subprime americani e trasformatasi in crisi mondiale con il fallimento della Lehman Brothers, si sono create conseguenze disastrose in tutto il mondo e, in particolare, nei paesi che per convenzione vengono identificati come periferia dei paesi imperialisti; in America latina, in Africa, in Asia, nel Vicino e Medio Oriente e anche in Europa dell’Est, come la Grecia ha dimostrato.

 

SVILUPPO DEL CAPITALISMO = SVILUPPO DELLE INEGUAGLIANZE E DI SPIETATA CONCORRENZA

 

Lo sviluppo ineguale del capitalismo, se da un lato ha creato nei paesi di più vecchio impianto capitalistico, come i paesi europei occidentali e dell’America del Nord, una struttura economica moderna, aprendoli, per primi, allo sviluppo imperialistico e al dominio del mercato mondiale, dall’altro lato ha creato una folta serie di paesi periferici in cui le contraddizioni capitalistiche, intrecciandosi con i residui di più vecchie strutture e sovrastrutture precapitalistiche, agiscono, da un lato, come spinta industriale nelle attività indispensabili ai paesi superindustrializzati (per le miniere, per l’estrazione di petrolio e gas naturale, per i porti e gli aeroporti, le piantagioni di frutta, caffè, tè ecc.) e, dall’altro lato, come freno ad uno sviluppo industriale più diffuso, creando vaste sacche di arretratezza economica e di povertà su cui i capitalisti locali e i capitalisti delle grandi multinazionali agiscono con livelli di sfruttamento bestiale. Ma, nonostante lo sviluppo capitalistico tocchi molti paesi un tempo colonizzati dalle potenze europee, la forbice tra una decina di paesi superindustrializzati dominanti il mercato mondiale e tutti gli altri tende ad allargarsi sempre più, gettando vaste aree continentali nella povertà più assoluta.

Tutto ciò è avvenuto, e avviene, in un clima generale di concorrenza sempre più spietata: il mondo diventa sempre più piccolo per il capitalismo imperialista, nonostante lo sviluppo economico indiscutibile in alcuni paesi, come Russia, Cina, Brasile, India e, prima ancora, Giappone. Ma questo sviluppo, se da un lato ha creato nuovi sbocchi di mercato, ha creato contemporaneamente nuovi concorrenti che, con il tempo sono diventati inevitabilmente più avidi, più aggressivi, più pericolosi e pronti a mandare all’aria i vecchi equilibri. Alla fine della prima guerra mondiale, come alla fine della seconda, i grandi paesi vincitori si riunirono per decretare una pace che, in memoria delle decine di milioni di morti, avrebbe dovuto durare per sempre. Ma per il capitalismo non può esistere la pace se non come tregua tra una guerra e l’altra. Le guerre commerciali, monetarie, economiche, finanziarie hanno punteggiato costantemente lo sviluppo della società borghese, e così le guerre guerreggiate che, sebbene dal 1945 in poi non hanno ripreso, almeno finora, la dimensione di una guerra mondiale, hanno comunque coinvolto sistematicamente, nelle diverse aree del mondo, le grandi potenze imperialistiche in lotta fra di loro esattamente per le stesse ragioni che le hanno condotte alle precedenti guerre mondiali: conquista di mercati a detrimento delle potenze concorrenti, influenza determinante su tutta una serie di paesi importanti strategicamente – sia per le risorse naturali di cui sono ricchi nei propri territori e nelle proprie zone di mare, sia per posizione geografica rispetto ai traffici commerciali, sia per ragioni essenzialmente militari – e costituzione di alleanze economiche, politiche e militari utili a rafforzare, e difendere, una rete di interessi che lo stesso sviluppo del capitale finanziario richiede con sempre maggior forza e che si rivela decisiva ogni volta che una crisi economica, monetaria o finanziaria si ripresenta all’orizzonte.

 

EPIDEMIA DI CORONAVIRUS ED INEFFICIENZA CONGENITA DELLA SANITÀ PUBBLICA

 

Ci sono poi degli eventi improvvisi, non direttamente economici o finanziari, che provocano l’accelerazione di crisi economiche e sociali, sorprendendo i poteri politici di ogni paese. Come ad esempio lo scoppio di un’epidemia i cui agenti sono sconosciuti. Ed è il caso dell’epidemia da coronavirus Covid-19 che la scienza medica ha chiamato Sars-CoV-2, poiché il virus che la caratterizza ha elementi patogeni molto simili alla Sars del 2002.

Nel giro di pochissimi mesi questo virus, attraverso diverse mutazioni, ha fatto il giro del mondo. I grandi paesi capitalisti, supermoderni, supercivilizzati, all’avanguardia nelle ricerche scientifiche e nelle innovazioni tecnologiche, si sono fatti sorprendere con le proprie strutture sanitarie del tutto impreparate e deficitarie, incapaci di affrontare questa epidemia dovuta ad un virus che, facendo parte della famiglia dei coronavirus, era già conosciuto e rispetto al quale, in particolare Cina, Stati Uniti, Gran Bretagna, avevano già avviato a suo tempo una serie di ricerche e di sperimentazioni che dovevano servire ad individuare per tempo la comparsa in anni successivi di virus altrettanto aggressivi e pericolosi.

Abbiamo già parlato, nelle prese di posizione precedenti, dell’incapacità del capitalismo di agire secondo piani scientifici, sociali ed economici adeguati ad una prevenzione reale contro epidemie virali o batteriche: la scienza, in regime capitalista, non è al servizio dell’uomo e della conoscenza del mondo naturale, ma è al servizio del capitale, quindi del profitto capitalistico; un profitto che non ama la prevenzione, ma l’emergenza, perché nell’emergenza cresce a dismisura e senza troppi vincoli di legge e amministrativi.

La società può rapportarsi al mondo naturale sostanzialmente in due modi: o conoscendo sempre più le leggi della natura, di cui essa stesso fa parte, entrando in un rapporto razionale con essa e, perciò, adeguando il proprio sviluppo sociale alle leggi della natura, oppure sfruttando irrazionalmente le conoscenze della natura, sottomettendo la propria vita sociale non alle leggi della natura, ma alle leggi del capitale che a tutto mirano, meno che a stabilire rapporti razionali e scientificamente definiti in base ai reali bisogni della vita umana, bisogni che non possono prescindere dalle condizioni che l’ambiente naturale impone loro. Certo, l’intervento dell’uomo sulla natura ha sempre rincorso un sogno ambizioso: sottrarsi al suo dominio e giungere ad un rapporto armonico con essa e a dominarne le leggi. Ma, nella realtà, le leggi della società capitalistica pongono l’uomo in posizione di estrema debolezza e incertezza rispetto alla natura; invece di progredire nella sua conoscenza e nel suo dominio, il capitalismo conduce l’uomo ad essere sempre più disarmato rispetto ad ogni evento naturale.

I terremoti, gli tsunami, la siccità, gli uragani, i tornado, i cambiamenti climatici, le epidemie da virus o batteri, le invasioni di locuste, le eruzioni vulcaniche, cioè eventi naturali che possono avere un terribile impatto sulla vita umana e che l’uomo ha imparato a conoscere nei secoli, diventano sistematicamente cause di tragedie, di carestie, di ecatombi anche nella società capitalistica, ossia nella società che ha sviluppato più di ogni altra società precedente le scienze naturali. Il guaio vero sta nel fatto che il capitalismo piega ogni conoscenza e ogni scoperta scientifica alla valorizzazione del capitale; nello stesso tempo, frena, impedisce, dimentica, distrugge ogni passo avanti fatto, o in procinto di essere fatto, in questo ambito dell’attività umana, se quel passo avanti significa impegnare risorse economiche e finanziarie senza garanzie di profitto. Le distruzioni provocate, ad esempio, da un terremoto sono un’occasione per ricostruire e rimettere in moto il ciclo produttivo di profitto; più si costruisce, più si addensano le costruzioni in città sempre più vaste, più si creano occasioni di distruzione devastanti (terremoti, maremoti, bombardamenti, crolli per costruzioni malfatte ecc.) e più si creano occasioni di profitto; inoltre, come è dimostrato senza tema di smentita, l’emergenza determinata dall’evento improvviso e disastroso annulla una buona parte dei passaggi amministrativi e burocratici in essere, consentendo, così, ai poteri politici e agli imprenditori a loro legati di fare i propri interessi a spese dello Stato: profitti facili e “legali”.

La stessa cosa vale per le epidemie. Senza andare troppo indietro nel tempo, basta riferirsi alla scorsa epidemia di Sars del 2002. I virus possono essere umani, e soltanto umani, perciò si trasmettono solo da uomo a uomo, ma non da uomo ad animale; oppure possono essere animali e, solo attraverso una serie di mutazioni possono trasferirsi dagli animali all’uomo – solitamente grazie al loro contatto stretto quotidiano, come nel caso dei cammelli (epidemia Mers), dei polli (epidemia aviaria), o grazie al contatto abituale dell’uomo con animali selvatici, come nel caso dei mercati cinesi dove si vendono animali selvatici vivi, ad esempio pipistrelli, come cibo (epidemia Sars). Inutile dire che alcune condizioni perché virus animali, come il coronavirus, si trasmettano all’uomo sono date dalla mancanza di condizioni igieniche nella vita quotidiana dell’uomo e dall’ammasso in spazi molto ristretti di milioni di persone.

Ma un’epidemia si può diffondere con una certa velocità non per fatalità, ma per cause ben precise e tutte riconducibili all’interesse economico di un ben definito gruppo di capitalisti, o di un paese capitalista, e sicuramente di un sistema economico generale che è il capitalismo. Il cosiddetto ritardo con cui le autorità cinesi di Wuhan, e poi della provincia di Hubei, e poi dell’intera Cina, hanno comunicato ufficialmente all’Organizzazione Mondiale della Sanità la presenza di questa epidemia, e il ritardo con cui i diversi governi dei paesi con cui la Cina ha fitti rapporti commerciali (a partire dalla Corea del Sud, e poi Giappone, Germania, Italia ecc.) hanno iniziato a prendere alcune misure di contenimento tentando di fermare la diffusione del contagio, sono ritardi non dovuti all’improvvisa comparsa del coronavirus sconosciuto, ma alla cieca propensione di ogni governo nel dedicare tutte le proprie energie economiche, politiche e sociali alla difesa dell’economia privata e nazionale. Se il virus se ne fotte dei confini tra città, regioni e Stati, viaggiando indisturbato in groppa ai borghesi quanto ai proletari, le classi dominanti borghesi, al contrario, alzano muri che poco servono a difendersi dal contagio, ma servono per la difesa, almeno parziale, visti gli intrecci internazionali, dell’economia nazionale, delle loro aziende e dei loro profitti, approfittando nello stesso tempo delle difficoltà, a causa dell’epidemia, in cui sono caduti aziende e paesi concorrenti.

Una volta scoperto e conclamato il pericolo di un’epidemia da coronavirus, ogni borghesia nazionale, dalla Cina alla Russia, all’Europa, all’Australia e alle Americhe, ha sollecitato il proprio governo a mettere in primo piano la difesa dell’economia nazionale, considerando la distanza tra l’epicentro del contagio (Wuhan, in Cina) e la propria nazione come un oggettivo vantaggio economico e politico di cui sarebbe stato antipatriottico non approfittare, prendendo sottogamba anche i casi di contagio che stavano emergendo drammaticamente (ad esempio in Italia) grazie ai fitti rapporti commerciali con la Cina e, in particolare, proprio con Wuhan, metropoli di 11 milioni di abitanti e superindustrializzata in cui si fabbricano componenti per le industrie di mezzo mondo. Secondo gli stessi borghesi, grazie a ricerche più recenti, il nuovo coronavirus ha iniziato a diffondersi a Wuhan già dallo scorso ottobre, attraverso quelle che sono state definite polmoniti “anomale”. Ed è l’abitudine a non agire con criteri di reale prevenzione, utilizzando le esperienze di malattie precedenti – come la Sars, tanto per rimanere in tema coronavirus –, che ha consentito a questo virus (ma la stessa cosa vale per ogni genere di epidemia) di diffondersi silenziosamente a macchia d’olio. Combinando questa cattiva abitudine con la costante priorità data all’interesse economico capitalistico, che spinge a “vivere il presente”, a “cogliere l’attimo”, non importa con quali conseguenze per sé e per gli altri, si giunge ad un risultato inevitabile e drammatico in termini di contagi e morti. Quel che stava succedendo a Wuhan e nella sua regione sembrava dovesse riguardare esclusivamente quella parte di Cina; così, chiudendo i contatti con le altre regioni cinesi, e recludendo gli abitanti nelle proprie case, si è creduto di fermare l’epidemia, considerando che decine di migliaia fra malati e morti erano gli inevitabili danni collaterali in una “guerra” contro un nemico invisibile, insidioso, sconosciuto. Ma, dall’ottobre scorso, il nuovo coronavirus aveva già iniziato il suo giro del mondo... (1).

A metà gennaio di quest’anno, in Italia, nel basso lodigiano (Codogno e dintorni) e poi nel padovano, e in seguito in Lombardia, in Emila Romagna, in Piemonte, si sono presentate strane polmoniti e influenze gravi che andavano crescendo di settimana in settimana; tra la fine di gennaio e la metà di febbraio si sono rivelate poi come contagi da un nuovo coronavirus, simile alla Sars ma molto più contagioso e letale. E così è scattata la caccia al cosiddetto “paziente zero”, considerato come causa prima della diffusione dell’epidemia; grossolano errore che deriva dalla falsa ideologia legata al mito del singolo individuo, del capo, dell’eroe, del duce, del dio o del diavolo da cui dipenderebbero le sorti della specie umana; un’ideologia che non è in grado di comprendere che ogni forma di vita su questa terra è forma sociale. L’animale uomo è un essere sociale e tutto ciò che lo riguarda, dalla produzione dei beni necessari alla vita alla riproduzione della sua specie, non va trattato come una somma di singoli individui, ma come un insieme contraddittorio di parti di un tutto integrabile e integrato, di un organismo sociale complesso che può ammalarsi in parte o completamente. Un insieme che costituisce la società umana e che, nel progredire sul piano della sopravvivenza e dell’organizzazione della produzione necessaria alla vita e della riproduzione della specie, si è sviluppato economicamente e socialmente in società divise in classi, fino alla società capitalistica e borghese. Società, questa, che, per quanti progressi abbia fatto sul piano delle innovazioni tecniche nella produzione e nelle scienze naturali, è rimasta congenitamente incapace di liberarsi dei miti antichi legati alle divinità soprannaturali con le quali si giustificavano tutti i misteri che l’uomo, alla data epoca, non riusciva a spiegare in altri modi. Le religioni, infatti, sono sempre servite finora alle classi dominanti per accecare e rimbecillire i popoli e dar loro un conforto “spirituale” utile a mantenerli nell’oppressione e nell’ignoranza.

Come non esiste un “paziente zero” non esiste nemmeno un “virus zero”; i virus sono particelle infettive che, per replicarsi, hanno bisogno di cellule ospiti (di insetti, animali, vegetali ecc.) e hanno grandi capacità di mutazione e di adattamento, si diffondono appunto grazie alla quantità di ospiti che riescono ad infettare; e l’animale-uomo, nei millenni, non ha perso la caratteristica di essere anch’esso ospite per una notevole quantità di tipi di virus. Ci deve convivere, come per i terremoti, le eruzioni vulcaniche, gli tsunami, così per le malattie provocate da batteri e virus, talvolta letali. Ma uno degli anticorpi sociali più potenti su cui l’uomo potrebbe fare affidamento è rappresentato dalla scienza, dalla conoscenza scientifica della natura. Indiscutibilmente sono stati fatti grandi passi avanti in questo campo, specialmente dalla rivoluzione borghese in poi, ma la grande potenzialità che la ricerca scientifica avrebbe, dati i mezzi tecnici a disposizione nella moderna società industrializzata, viene sempre più soffocata dal sistema capitalistico a causa del suo congenito mercantilismo. Tutto deve girare intorno alla produzione e alla distribuzione di merci, tutto dipende dalla valorizzazione del capitale, tutto deve rispondere alla legge del profitto e tutto, inevitabilmente, deve sottostare ad un regime politico e sociale che affonda le sue radici nella proprietà privata e nell’appropriazione privata dell’intera ricchezza prodotta, e che opprime l’intero genere umano affossandolo nella condizione di schiavitù delle merci e del denaro. Perché la scienza medica e biologica diventi realmente un potente anticorpo rispetto a malattie virali o batteriche particolarmente pericolose, è necessario che la società umana rivoluzioni da cima a fondo l’assetto politico ed economico capitalistico, liberando così le migliori energie ed intelligenze allo sviluppo di una reale e positiva scienza sociale.

E’ quella condizione di schiavitù mercantile a rendere irrazionale, confusa, cieca, ogni autorità economica, politica, sociale o spirituale. Come davanti ad una crisi economica o finanziaria, in cui all’improvviso le merci non si vendono più come prima e i capitali non rendono più come prima, mandando in rovina migliaia se non milioni di aziende – e, con loro, padroni, padroncini e dipendenti salariati – così davanti ad una crisi sanitaria provocata da un’epidemia scoppiata all’improvviso, le più diverse attività produttive e i servizi subiscono un tracollo, ed ogni grado gerarchico di potere, soprattutto in regime democratico, si avvita in una spirale irrazionale di ordini e contrordini, di misure e di contromisure, in assenza di un piano generale e unitario di intervento, procedendo alla cieca e attendendo dalle situazioni contingenti l’indicazione per ogni decisione. E tutto ciò avviene in una situazione in cui le strutture sanitarie sono del tutto inadeguate ad affrontare un’epidemia di grandi dimensioni e che si diffonde con grande velocità.

 

IL CASO ITALIANO È EMBLEMATICO

 

Una volta riconosciuto che il nuovo virus della famiglia dei coronavirus (che attaccano in particolare le vie respiratorie) era la causa di quelle strane e gravi polmoniti, e data la mancanza assoluta di una provata e generale programmazione di prevenzione atta ad essere immediatamente applicata in casi di epidemia (non parliamo poi dei casi di pandemia, come l’attuale Covid-19), le uniche “misure” che vengono prese sono le solite: ricorrere ai pronto soccorso degli ospedali più vicini i quali, dato il numero crescente di malati e di malati gravi, si intasano rapidamente, e ordinare il confinamento sempre più stretto delle persone che fa saltare d’un tratto ogni “libertà” individuale tanto cara alla propaganda borghese. I drastici tagli fatti negli ultimi trent’anni alla sanità pubblica, nella politica di riduzione dei costi sociali applicata da tutti i paesi, mostrano immediatamente i loro effetti: secondo l’OMS «nel 1980 l’Italia aveva 922 posti letto dedicati ai “casi gravi” per 100.000 abitanti. Trent’anni più tardi ne sono rimasti 275» (2). Gli ospedali pubblici, non le cliniche private, ovviamente sono giunti al collasso velocemente. Non solo, ma negli ospedali non mancano solo posti letto per i malati gravi, e quindi posti in terapia intensiva, ma mancano medici, anestesisti, specialisti, infermieri; e mancano i dispositivi di protezione individuale, le famose mascherine, le tute, i guanti, gli schermi, i copriscarpe, esponendo in questo modo il personale ospedaliero al contagio e alla morte. Che gli ospedali siano un luogo dove spesso, invece di essere curati e di guarire, ci si ammala, è una vecchia ammissione degli stessi medici.

Mancando posti letto nell’ospedale più vicino, i malati vengono così trasportati in ospedali di altre città, che si trovano esattamente nelle stesse condizioni generali, e perciò anche in questi i letti vengono presto a mancare. Allora emerge il colpo di genio della Regione Lombardia, che l’8 marzo, «individua le residenze per anziani come strutture di supporto agli ospedali oberati», ma non si affida al “buon cuore” di queste strutture, perché «si promette loro una sorta di indennizzo giornaliero (150 euro per ricoverato) e soprattutto un incremento futuro dei rimborsi per le prestazioni offerte da questi “enti erogatori”». E’ il caso, ad esempio del Pio Albergo Trivulzio di Milano che riceve una ventina di pazienti coronavirus e «diventa il centro di smistamento di malati alle Rsa regionali» (3). Così, anche le Residenze per gli anziani diventano centri di contagio e di diffusione dell’epidemia e altri morti si aggiungono ai decessi già avvenuti, senza risolvere né il problema della diffusione del contagio né il problema dei limitati reparti di terapia intensiva e subintensiva, anzi, aggravandoli. Ma i colpi di genio della Regione Lombardia non finiscono qui: la giunta regionale il 18 marzo presentava in pompa magna il progetto di un “nuovo ospedale” da realizzare in tempi rapidi nei padiglioni della Fiera di Milano, quindi lontano dagli ospedali esistenti, gareggiando con quanto avevano fatto i cinesi a Wuhan con un nuovo ospedale da 1.000 posti letto realizzato in dieci giorni. Il 31 marzo viene inaugurato il nuovo “Covid hospital”, preannunciato con 600 posti letto di terapia intensiva e subintensiva, e con l’impiego di «200 medici anestesisti e rianimatori, 500 infermieri e altre 200 persone» (4). Costruito grazie a numerose donazioni ammontanti a oltre 21 milioni di euro da privati (Berlusconi, supermercati Esselunga ecc.) e gestito da una Fondazione creata appositamente (con il presidente della Fiera nel consiglio di amministrazione), sembra che sia costato più del doppio, circa 50 milioni, ma non è dato sapere da dove siano usciti gli altri 30 milioni di euro... In ogni caso, è stato davvero necessaria questa nuova struttura? Moltissime le critiche da parte dei medici di molti ospedali riportate dalla stampa. «L’idea di realizzare una terapia intensiva in Fiera non sta né in cielo né in terra», dichiara il cardiologo Giuseppe Bruschi dell’ospedale Niguarda di Milano, e continua: «Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale. Una terapia intensiva funziona solo se integrata con tutte le altre strutture complesse che costituiscono la fitta ragnatela di un ospedale», e non serve essere un medico per capire che un vero ospedale non può funzionare con reparti lontani dalla sua complessa e fitta ragnatela. Ovvia la domanda fatta dal cardiologo Bruschi: «Perché costruire un corpo a sé stante, quando si sarebbe potuto potenziare l’esistente?» (5), ma gli interessi economici e quelli politici legati ad essi spingono nella direzione contraria: i profitti girano a velocità aumentata e in quantità maggiore costruendo il “nuovo”, non potenziando il “vecchio”, e non importa se nella nuova struttura etichettata propagandisticamente Covid-hospital, che avrebbe dovuto allentare l’enorme pressione sugli ospedali della regione, ad oggi, 14 aprile, sono stati ricoverati soltanto una dozzina di pazienti, prendendo in carico una cinquantina di medici, tecnici e paramedici che turnano sulle ventiquattro ore, personale ospedaliero che, mancando dappertutto, e soprattutto nelle regioni del Nord Italia, è preso, per l’80%, dall’ospedale Policlinico di Milano al quale è stata affidata la direzione sanitaria di questo hub (6).

Anche a Bergamo, altro epicentro dell’epidemia e col più alto numero di morti per coronavirus tra le province italiane, è stata realizzata una nuova struttura simile al Covid-hospital di Milano, un “ospedale da campo” grazie all’associazione degli alpini, presso la Fiera di Bergamo che è molto più vicina agli ospedali della zona di quanto non sia la Fiera di Milano. Questa struttura, molto più agile e realizzata in pochi giorni, ad un costo molto inferiore a quello di Milano, e con obiettivi molto meno ambiziosi ma più realistici, prevedeva «72 posti in terapia intensiva e 70 in terapia subintensiva: ha già 50 posti operativi e oltre venti pazienti seguiti da medici russi, norvegesi, di Emergency e degli alpini». Anche qui mancano infermieri come dappertutto, ma è interessante notare che, proprio per questa mancanza di personale, il 18 marzo la Regione Lombardia – mentre presentava il suo megaprogetto del Covid-hospital alla Fiera di Milano – aveva tentato di bloccarla perché «manca il personale per gestirlo: è inutile creare una cattedrale nel deserto» (7). Ma guarda! A Milano, una struttura paraospedaliera, lontana dagli ospedali esistenti e funzionante allo 0,3% della sua vantata potenzialità, quindi cattedrale nel deserto, è stata considerata urgente e necessaria, mentre a Bergamo, una struttura paraospedaliera del tutto simile, e funzionante per il 14% della sua potenzialità, sarebbe una inutile struttura... A darsi la zappa sui piedi ci ha pensato la giunta regionale lombarda per bocca del suo presidente, Attilio Fontana che, all’inaugurazione del Covid-hospital il 31 marzo, dichiarava: «Speriamo in futuro possa non essere smantellata e diventare un presidio contro futuri scenari simili a quello di oggi»! (8). Ritorna ovvia la domanda: perché non potenziare l’esistente? Perché non utilizzare «le energie e le donazioni raccolte per ristrutturare o riportare in vita alcuni dei tanti padiglioni abbandonati degli ospedali lombardi (Niguarda, Sacco, Varese...). Si sarebbe investito nel sistema in essere e quanto creato sarebbe rimasto in dotazione alla sanità lombarda» (9). La logica capitalistica non potenzia l’esistente, non recupera ciò che è stato abbandonato, se può costruire di bel nuovo, grazie a Santa Emergenza, perché solo così il capitale si valorizza, producendo profitto: accrescendo il capitale fisso, che è in sostanza lavoro morto, si aumenta lo sfruttamento del lavoro salariato, che è lavoro vivo, ed è da questo sfruttamento che il capitale estorce il plusvalore (che corrisponde al tempo di lavoro non pagato), il vero generatore della valorizzazione del capitale. Logica capitalistica contro logica umana.  

Intanto il numero di contagiati, di malati gravi e di morti cresceva irrimediabilmente; l’emergenza era ed è tale che si è dovuti passare a decretare città e zone epicentri dell’epidemia come “zone rosse”, chiudendole come lazzaretti, in modo che nessuno potesse uscire o entrare, salvo poi dichiarare l’intera Italia “zona rossa”. Naturalmente la diffusione dell’epidemia ha obbligato le autorità locali, regionali e nazionali a fermare fabbriche, esercizi commerciali, uffici e diminuire drasticamente la circolazione delle persone, lavoratori o meno. Ma i capitalisti sono interessati, premendo insistentemente, a continuare a far funzionare le proprie aziende, nonostante le misure di contenimento che le autorità sono costrette a prendere e la necessaria disposizione di sanificazione degli ambienti di lavoro prima di far riprendere il lavoro ai propri operai. Gli scioperi che ci sono stati in febbraio e in marzo evidenziavano, invece, la mancanza completa della sanificazione degli ambienti di lavoro, delle dotazioni dei dispositivi di protezione individuale e la difficoltà oggettiva che i lavoratori mantenessero la distanza di almeno un metro uno dall’altro vista l’esistente organizzazione del lavoro nelle aziende. In Italia, ma anche in altri paesi, le decisioni che riguardano la popolazione sono ripartite fra il governo nazionale, il governo regionale e i sindaci delle città, perciò non è sufficiente che il governo nazionale decreti, ad esempio, il fermo delle aziende considerate non essenziali per la vita quotidiana, come lo sono invece le aziende agricole, chimico-farmaceutiche, o che fabbricano attrezzature mediche e ospedaliere, e i panifici, i negozi alimentari, le farmacie, o le poste, le edicole ecc.

E così, ogni regione, ed ogni città, si muove per conto proprio, appunto come aziende in concorrenza una con l’altra. In Lombardia, ad esempio, secondo una stima Istat di fine marzo, su 800.000 aziende ben 450.000 sono attive; nella provincia di Bergano, epicentro dell’epidemia in regione, il 40% circa delle attività è già ripartito, e in provincia di Brescia riaprono i cancelli la Feralpi (siderugia), la Beretta (armi) e la Streparava (automotive) (10). E situazioni simili ci sono in tutta la Val Padana, quindi anche in Veneto, in Piemonte, in Emilia Romagna che, insieme alla Lombardia, costituiscono il cuore produttivo dell’Italia. Una Val Padana, tra l’altro, che la forte industrializzazione ha trasformato in una zona tra le più inquinate d’Europa; e non è un caso che in Lombardia e nelle altre regioni del Nord, si sia concentrata l’enorme quantità di contagi, di malati gravi e di morti. Grazie allo smog e alle polveri sottili il Covid-19 si è diffuso con molta più velocità; inoltre, molti virologi e infettivologi hanno dichiarato che i dati ufficiali dei contagiati e dei morti sono molto inferiori alla realtà, visto che questo coronavirus ha la capicità di replicarsi 5-10 volte di più di quanto risulta alla Protezione Civile, che si basa soltanto sui tamponi effettuati. Come mancano i dispositivi di protezione individuale, a partire dal personale ospedaliero, mancano anche i tamponi – e quindi le relative analisi – per il personale di tutti gli ospedali, figuriamoci per tutta la popolazione...

 

I PROLETARI NON HANNO NULLA DA SPARTIRE CON I BORGHESI, DI GOVERNO O DI OPPOSIZIONE CHE SIANO

 

Il disastro della sanità pubblica, oggi, è ancora più evidente ed è inutile cercare “il colpevole”, anche se la responsabilità di tutta una serie di misure è certamente dei politici dei diversi partiti che hanno governato finora e che governano tuttora. La colpa, se vogliamo usare per un momento questo termine, è del capitalismo, del modo di produzione basato sul mercantilismo, sul denaro, sul capitale, sullo sfruttamento del lavoro salariato; un modo di produzione che ha generato una classe dominante che, nel suo complesso, non può agire se non obbedendo alla legge dei mercati, del capitale e della sua valorizzazione e per la quale la cura della vita umana è un accessorio della cura dell’economia capitalistica.

Sanità, per i borghesi, significa farmaci, ospedali, cliniche, specialisti; senza farmaci non c’è cura, non c’è salvezza. E’ per questo che l’industria farmaceutica è diventata potente quanto l’industria delle armi, e non è un caso che i borghesi, di fronte ad una epidemia, parlino in termini di “guerra contro…”. Come ogni industria, anch’esse seguono la logica capitalistica classica: si fabbrica per vendere, si vende per far profitto e si cerca di battere la concorrenza per assicurarsi profitti maggiori. Quindi, più malattie da curare, più farmaci si vendono, più profitti si fanno. Più contrasti sociali o fra Stati, fra gruppi etnici, tra fazioni borghesi, e più armi si vendono, più profitti si fanno. Ma la logica capitalistica che si basa sulla concorrenza tra le aziende, e quindi tra gli Stati, non si è mai fermata al livello della cosiddetta concorrenza “leale”, è andata sempre oltre, spinta com’è non tanto a collaborare e a cooperare per un bene che non è privato, ma dovrebbe essere comune e universale, quanto a vincere, a battere la concorrenza, a sopraffarla; ed è in questa logica che lo sviluppo capitalistico porta a concentrare sempre più produzione, distribuzione e capitali; è così che le innovazioni tecniche e tecnologiche hanno spinto alla costituzione di industrie sempre più grandi e bisognose di capitali in quantità sempre crescenti. Le multinazionali sono il prodotto specifico dello sviluppo imperialistico del capitalismo. E come esistono le multinazionali dei prodotti agricoli, dei più disparati prodotti industriali, dei trasporti, delle risorse minerarie, delle comunicazioni, esistono le multinazionali chimico-farmaceutiche e delle armi.

Le grandi compagnie chimico-farmaceutiche hanno tutto l’interesse a vendere in quantità sempre maggiori i propri prodotti, e per raggiungere questo obiettivo contano sul fatto che le malattie di ogni genere aumentino sempre più e si diffondano sull’intero pianeta; i rimedi che scoprono e producono non sono che delle risposte, più o meno adeguate, alle molte malattie dell’uomo come degli animali o delle piante, e raramente sono ispirate ad una reale prevezione anche perché la reale prevenzione, la vera cura degli organismi viventi, a partire dall’uomo, non la si può ottenere se non considerando la vita dell’uomo non separata dall’ambiente in cui vive e dalle sue condizioni di vita e di lavoro. Il fatto che nei paesi industrializzati siano in continuo aumento le malattie cardiovascolari, respiratorie e psicosomatiche la dice lunga sulle condizioni di vita e di lavoro della stragrande maggioranza della popolazione mondiale; e se si aggiungono miseria, povertà, condizioni igieniche inesistenti, carestie, mancanza d’acqua in buona parte dell’Africa e in vaste zone dell’Asia, senza dimenticare le metropoli dell’Europa e delle Americhe, a cui sommare le conseguenze delle guerre, non è difficile rendersi conto che la civiltà borghese e capitalistica porta esattamente ad una situazione insostenibile per la maggioranza della popolazione mondiale, aggravandola nello spazio e nel tempo.

La fame di profitto non è mai sazia, ed ogni settore economico ha interesse a non fermarsi alle occasioni di guadagno che il mercato spontaneamente offre, ma a creare più occasioni possibili. Così per l’industria delle armi, che conta sulle organizzazioni lobbistiche per influenzare e corrompere tutte le istituzioni, nazionali e internazionali, allo scopo di facilitare la diffusione delle armi e il loro consumo; così per l’industria chimico-farmaceutica che, allo stesso modo, ha interesse alla diffusione e al consumo di ogni tipo di farmaco – con gli effetti collaterali che ognuno di loro si porta appresso, e grazie ai quali è assicurata la diffusione e il consumo di molti altri farmaci – ma che in presenza di epidemie, probabili o reali, ha tutto l’interesse a fare in modo che la loro diffusione sia la più vasta possibile. E non importa se tutti coloro che, avendo le leve del comando e del potere politico, potrebbero intervenire all’inizio del fatto epidemico per bloccarne e limitarne la diffusione, ma non intervengono per inesperienza, ignoranza, incapacità, disorganizzazione. Le leve di quel comando, pur essendo in mano al tal presidente, governatore o luminare del momento, fanno parte di un ingranaggio complesso e mondiale che si chiama sistema capitalistico, di cui i capitalisti e la classe borghese godono i privilegi, ma solo seguendo i dettami di leggi economiche e finanziarie che vanno al di là della volontà della classe al potere come di ogni singolo capitalista. Il Covid-19 può far ammalare e uccidere il banchiere come l’infermiere, il parroco come l’operaio, l’intellettuale come il barone d’ospedale o la cassiera di supermercato, anche se, proprio per ragioni legate strettamente alle condizioni di vita e di lavoro, sono i più deboli, come gli anziani, e i lavoratori salariati a pagare il prezzo più alto. E possono morire a migliaia, come finora gli oltre 90.000 morti di coronavirus nel mondo, o a milioni, come nelle guerre mondiali, ma l’importante è che sopravviva il sistema capitalistico, un modo di produzione che si nutre dei suoi morti, e una società che la classe borghese difende con ogni mezzo perché difende i suoi privilegi, il suo potere, il suo dominio.

Il capitalismo non solo approfitta delle catastrofi naturali per attivare in larga scala gli interventi di emergenza e di ricostruzione che portano abbondanza di profitti, ma causa direttamente e artificialmente situazioni catastrofiche e di malattie in modo che l’emergenza sociale e sanitaria diventi sempre più la norma. In guerra, si sa, ci sono distruzioni, feriti, morti e l’uso di metodi autoritari e dittatoriali per condurla e vincerla diventa una necessità per tutti i belligeranti. Per la borghesia, e per la borghesia imperialista in particolare, la guerra – commerciale, monetaria, economica, finanziaria – è la norma, e si trasforma in guerra guerreggiata tutte le volte che le altre forme di scontro non giungono al risultato voluto. Per i borghesi, ogni situazione di crisi economica, sociale, sanitaria, è una situazione di “guerra” e come tale vede sempre almeno tre nemici: le fazioni concorrenti della stessa borghesia, le borghesie straniere e la classe proletaria, che è l’unica classe che potenzialmente rappresenta il pericolo più forte per il dominio politico e sociale borghese e contro la quale la classe dominante borghese non smette mai di lottare. Come già affermato nelle prese di posizione precedenti, questa pandemia da Covid-19 è anche occasione per le borghesie di ogni paese per attuare un controllo sociale più fermo e diretto, in modo da abituare la popolazione, e il proletariato in particolare, ad un clima “di guerra”, al coprifuoco, allo stretto confinamento in casa o nei luoghi di lavoro, spingendo alla delazione e alla denuncia di tutti coloro che “disobbediscono” agli ordini emanati dalle diverse autorità.

Oggi, i proletari sono ancora incapaci di rispondere con metodi e mezzi di classe all’attacco della borghesia che approfitta dell’aggravamento dell’epidemia per attaccare alle radici la spinta proletaria a ribellarsi contro una classe dominante che ha dimostrato e dimostra ogni giorno di più di aver criminalmente sottovalutato la gravità del coronavirus e di averne causato, proprio attraverso l’assenza di reale prevenzione, la micidiale diffusione. Per l’ennesima volta i proletari subiscono i colpi sferrati alle loro condizioni di esistenza senza avere la forza di difendersi e di organizzarsi indipendentemente dagli apparati sociali della borghesia e dagli apparati politici e sindacali del collaborazionismo. Ma è sul terreno della lotta classista e della riorganizzazione classista che i proletari riusciranno a difendere finalmente i propri esclusivi interessi di classe; e su questo terreno, prima o poi, dovranno tornare se non vorranno morire senza combattere.

Ci sono state situazioni storiche in cui le borghesie, pur facendosi la guerra con ogni mezzo, sono state in grado di sospendere o attenuare lo scontro armato fra di loro per allearsi contro il proletariato insorto in uno o più paesi coinvolti nella guerra: sono le situazioni rivoluzionarie, come nel caso della Comune di Parigi del 1871, e della vittoriosa Rivoluzione russa d’Ottobre del 1917-1921. E’ già successo, quindi, che il proletariato rivoluzionario abbia messo con le spalle al muro la classe borghese dominante durante la guerra borghese, nonostante il dominio assoluto sull’economia del paese e il controllo politico della forza militare. Un controllo politico che può nuovamente perdere a condizione che la classe proletaria riconquisti il terreno della lotta di classe, sia guidata dal partito comunista rivoluzionario e dia decisamente l’assalto al cielo, nel paese in cui le condizioni generali saranno mature e più favorevoli, conquistando il potere politico, abbattendo lo Stato borghese e instaurando la sua dittatura di classe, dando inizio in questo modo alla rivoluzione proletaria internazionale, l’unica che può affossare il dominio politico della borghesia e dare l’avvio alla distruzione del sistema capitalistico per sostituirlo con un modo di produzione volto a soddisfare le esigenze della vita umana e non del mercato, del capitale, della finanza. 

 


 

(1) Cfr. https:// www. repubblica.it/ cronaca/ 2020/ 02/ 28/ news/coronavirus_ studio_ italiano_ all_ oms_ epidemia_ da_ottobre_ contagi_ raddoppiati_ ogni_4_ giorni-249808885/ 

(2) Cfr. Le Monde diplomatique, n. 4, aprile 2020. Descritta la situazione anche di altri paesi: «Nel 1980 la Francia dispopneva di 11 letti di ospedale (mettendo insieme tutti i servizi) per 1.000 abitanti. Attualmente se ne contano solo 6 (...) Nel 1970 negli Stati Uniti c’erano 7,9 posti letto per 1.000 abitanti; nel 2016 erano scesi a 2,8 (fonte Ocse)».

(3) Cfr. la Repubblica, 14 aprile 2020.

(4) Cfr. www.today.i/attualita/coronavirus-ospedale-fiera-milano.html

(5) Cfr. www. globalist.it/ news/ 2020/ 04/ 14/ il-covid- hospital- di- milano- piu-che- eccellenza- lombarda- una- inutile cattedrale- nel-deserto- 2056268.html

(6)  Ibidem.

(7) Cfr. il fatto quotidiano, 14 aprile 2020.

(8) Cfr. www.today.i/attualita/coronavirus-ospedale-fiera-milano.html

(9) Cfr. il manifesto, 14 aprile 2020.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

15 aprile 2020 (aggiornamento del 20 aprile 2020)

www.pcint.org

 

Top

Ritorno indice

Ritorno archivi