Back

Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                


 

Non saranno gli atti terroristici, oggi di Hamas, come quelli di ieri di Al-Fath o di oltre organizzazioni guerrigliere palestinesi, a far cessare l’oppressione israeliana sui palestinesi di Gaza e in Cisgiordania.

Il futuro del proletariato palestinese, come quello dei proletari di tutto il Medio Oriente, d’Europa e del mondo, è nella lotta indipendente di classe e nella solidarietà di classe proletaria di tutti i paesi!

 

 

La borghesia palestinese, divisa oggi in due grandi fazioni – Hamas e ANP – si muove su tre direttrici principali: 1) mantenere rapporti più stretti possibili con le diverse, e contrastanti, potenze regionali e internazionali che hanno interesse a sostenerle; 2) difendersi dall’oppressione economica, politica, sociale e militare soprattutto di Israele, ma anche da parte degli altri Stati arabi della regione, e 3) tenere soggiogato il proletariato palestinese su cui le due fazioni principali esercitano il loro limitato potere sia per ricavarne uno sfruttamento sufficiente a garantire loro i privilegi che da quel potere derivano, sia per utilizzarlo come moneta di scambio con le potenze regionali e internazionali con cui intrattiene le relazioni.

Il proletariato palestinese, usato da decenni come forza d’urto a vantaggio delle diverse fazioni in cui si è divisa la borghesia palestinese e delle diverse borghesie degli altri Stati arabi, è stato sempre destinato ad essere contemporaneamente forza lavoro sfruttatissima da ogni borghesia sotto cui aveva la sventura di stare o di rifugiarsi, e carne da cannone sia nei conflitti coi quali tentava di difendersi da ogni attacco – fossero in Palestina o nei “campi profughi” in Egitto, Giordania, Libano, Siria – sia nei conflitti di Israele contro i paesi in cui si era rifugiato.

Palestina: un proletariato e un popolo condannati ad essere massacrati. Israele: uno Stato nato sull’oppressione del popolo palestinese e un proletariato ebraico prigioniero dei vantaggi immediati, e complice, di questa oppressione. Un’oppressione che non avrebbe la forza che ha e non durerebbe così da tanto tempo se non fosse sostenuta, foraggiata, alimentata dalle potenze imperialiste occidentali che hanno costituito con Israele una fortezza a propria immagine e somiglianza in Medio Oriente utilizzando in funzione egemonica le strette relazioni con le comunità ebraiche americane ed europee al fine di di matenere viva la difesa degli interessi imperialisti aldisopra degli interessi specifici e “nazionali” della borghesia israeliana. Un’oppressione che le potenze democratiche occidentali devono far passare come una “necessità di sopravvivenza” del popolo ebraico di cui, ieri, si sono rese complici dello sterminio attuato dal nazifascismo, e al quale oggi, sotto forma dello Stato-gendarme degli interessi imperialistici occidentali chiamato Israele, pagano un debito storico a vantaggio anche di una borghesia “nazionale” alla quale permettere di sfruttare una massa proletaria palestinese a bassissimo prezzo e reprimerne, con i metodi violenti ritenuti più efficaci, ogni tentativo di lotta anche soltanto sul terreno della difesa economica e immediata. Un’oppressione la cui efficacia e durata nel tempo la si deve anche alla generale passività dei proletari europei e americani che disertano da decenni la lotta classista, imbevuti, come sono da generazioni, di illusioni democratoidi e collaborazioniste.   

Per quanto lontana appaia la lotta di classe del proletariato nei paesi occidentali, è l’unica via grazie alla quale la classe proletaria dei paesi imperialisti, d’Occidente e d’Oriente, che sostengono sia la borghesia israeliana sia la borghesia palestinese, riscatti sé stessa imboccando finalmente una lotta senza tregua contro i veri nemici di classe: gli imperialisti, massime forze dell’oppressione di ogni popolo, di ogni nazionalità.

Il proletariato palestinese non ce la farà mai da solo a liberarsi della propria borghesia e tanto meno della borghesia israeliana. In questa situazione si era già trovato più volte, dal 1948 in poi, da quando lo Stato di Israele si impose con la violenza e continuò ad occupare con la violenza le terre dei palestinesi. Le lotte che le varie formazioni borghesi palestinesi armate attuarono dagli anni Sessanta in poi nascevano già intrise di un nazionalismo venduto a potenze straniere da cui riceveva sostegno e direttive, e che nulla aveva a che vedere con lo spirito e la spinta “nazional-rivoluzionaria” indipendentista che distinguevano le lotte contro l’oppressione nazionale in Algeria, in Congo e, più avanti, in Angola e Mozambico e che per un lungo tratto di strada aveva caratterizzato la spontanea rivolta del proletariato palestinese. Nei disegni degli imperialisti vincitori della seconda guerra mondiale, in particolare del Regno Unito, dell’URSS e, successivamente, degli Stati Uniti, tutta l’area medio-orientale – gonfia di petrolio e presenti vie di comunicazione strategiche come il Canale di Suez, il Mar Rosso, il Golfo Persico – assumeva inevitabilmente un’importanza vitale per il capitalismo mondiale. Le popolazioni arabe che abitavano in quella vasta area, se avessero avuto la forza di ribellarsi ai britannici e ai francesi come si ribellarono agli ottomani durante la prima guerra mondiale, avrebbero potuto procurare guai seri agli interessi degli imperialismi britannico e francese e, in prospettiva, a quello russo e statunitense che naturalmente non avevano alcuna intenzione di rimanere estraniati da quella regione.

«Fu l’imperialismo, – scrivevamo nel 1958 – scoprendo e sfruttando i giacimenti petroliferi d’Arabia, e inserendo gli Stati arabi nati dalla disgregazione dell’Impero ottomano nella grande rete dei traffici mercantili, specialmente petroliferi, a preparare “il barile di polvere” che oggi [1958, NdR], qua e là, salta per aria. Fu esso che, promettendo insieme agli arabi l’indipendenza per averli alleati contro i turchi o i tedeschi, e agli ebrei il focolare palestino per garantirsi l’appoggio dell’alto capitale e delle povere ma prolifere minoranze ebraiche nei Paesi occidentali, creò le premesse della tensione dalla quale il vicino Oriente è lacerato, tanto più grave in quanto nel frattempo gli Stati arabi si sono economicamente rafforzati e Israele è divenuto il grande centro di un’industria e di un’agricoltura ultrarazionalizzate» (1).

Ebbene quella tensione dalla quale il vicino Oriente era da tempo lacerato non si è mai attenuata, semmai si è accentuata sempre più. All’epoca, quel che temevano gli imperialisti era la possibilità che le popolazioni arabe lottassero e giungessero ad una unificazione pan-araba e ad uno Stato sovranazionale, cosa che esisteva nei disegni di Siria ed Egitto; ma quell’unificazione non avvenne a causa di molti fattori storici e contingenti tra cui la tradizionale rivalità tra tribù e sceicchi, rafforzata e non diminuita nel tempo proprio grazie alla scoperta del petrolio e all’intervento delle potenze imperialiste tra di loro concorrenti, alla loro conoscenza dei deserti e allo sfruttamento di masse diseredate e proletarizzate non solo della vasta area mediorientale ma provenienti anche dall’Asia centrale ed estremo-orientale.

La lotta per l’autodeterminazione del popolo palestinese avrebbe potuto inserirsi nel grande ciclo delle lotte anticoloniali che si era aperto dopo la fine della seconda guerra imperialista mondiale, soprattutto nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso; ma il gigantesco potenziale di classe rappresentato dal proletariato e dalle masse proletarizzate palestinesi, pur esprimendosi attraverso la loro lotta indomabile e armata in Palestina, in Libano, in Siria, in Giordania, non espresse un programma politico autonomo, di classe, che potesse guidare il movimento nazionale. Né questo programma politico rivoluzionario di classe era presente ed operante nella forma dell’Internazionale proletaria e comunista ormai distrutta e cancellata da quarant’anni. D’altra parte, le forze politiche “di sinistra” che formavano la “resistenza palestinese”, e che si proclamavano “marxiste”, erano ancora così impregnate dell’opportunismo di marca staliniana da non poter esprimere se non programmi politici e direttive devianti incapsulando sempre più il “movimento di liberazione” palestinese nei giochi reazionari delle oligarchie arabe e dei paesi imperialisti. Non solo la grande aspirazione dell’unificazione araba dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso tramontò rapidamente, ma anche l’illusione di una emancipazione palestinese dall’oppressione israeliano-occidentale-araba attraverso una lotta di “resistenza” diretta dagli interessi di una borghesia palestinese corrotta e venduta al miglior offerente e sostenuta ora da un blocco imperialista ora dal blocco concorrente, andò inesorabilmente incontro alla disfatta più tragica. Lo stesso opportunismo di marca staliniana influenzava in modo pesante anche i proletariati occidentali, ed europei in particolare, gli unici che avrebbero potuto rappresentare l’alleato fidato nella lotta contro lo stesso nemico, le classi dominanti borghesi, non importa se israeliane, arabe, francesi, inglesi, americane o russe. La passività che i proletari d’Europa dimostrarono nei confronti della lotta del proletariato palestinese non si espresse soltanto nell’abbandonarlo al suo destino mantenendo, nello stesso tempo, rapporti di stretta collaborazione con ciascuna delle loro borghesie nazionali per salvare quelli che potevano passare, rispetto alle condizioni in cui sopravvivevano i proletari palestinesi, per privilegi economici e politici conquistati nel corso degli anni; si espresse anche, attraverso le molteplici forze politiche sedicenti “comuniste”, nel fomentare l’illusione che la soluzione della “questione palestinese” fosse quella di decretare, attraverso l’ONU e i vari accordi tra i gangster imperialisti, l’esistenza di due Stati sullo stesso territorio.

La “resistenza palestinese”, che viene ancora invocata da sedicenti rivoluzionari comunisti, attualmente rappresentata soprattutto da Hamas a Gaza e da ANP in Cisgiordania, oggi più di ieri serve per ingannare e paralizzare le masse proletarie e proletarizzate palestinesi non solo in Palestina, ma anche in Giordania, in Libano, in Siria, dove si sono rifugiate nei famosi “campi profughi”, e in ogni altra parte del mondo dove sono esiliate, affinché la loro reazione ai continui massacri di cui sono oggetto non si orienti finalmente verso la lotta di classe, l’unica lotta che le metterebbero nelle condizioni non solo di indipendenza ed autonomia da qualsiasi altra forza borghese e collaborazionista, ma che aprirebbe anche la possibilità di allargare la solidarietà di classe con i proletari degli altri Stati arabi, con quello israeliano e col proletariato dei paesi imperialisti, innanzitutto dei paesi europei.

 Lunga e lontana la via della lotta di classe, questo è certo, ma è l’unica prospettiva nella quale i fatti materiali che stanno alla base dell’antagonismo tra le masse proletarie e le borghesie in tutti i paesi spingono storicamente alla soluzione di ogni oppressione, di ogni sfruttamento, di ogni guerra attraverso la lotta di classe rivoluzionaria.

La mobilitazione in varie capitali occcidentali, riscontrata da quando le truppe israeliane hanno invaso la Striscia di Gaza, radendo al suolo le città del nord, la stessa Gaza city e procedendo nella stessa maniera nel sud della Striscia verso cui lo stesso Israele aveva costretto a sfollare più di 1 milione e mezzo di palestinesi dal nord, inneggiando alla “resistenza palestinese”, sventolando la bandiera palestinese e invocando soccorsi umanitari e la cessazione della guerra, non è che l’ennesima dimostrazione di una solidarietà pelosa verso un popolo il cui ennesimo massacro è permesso, organizzato e attuato dall’unico paese democratico del Medio Oriente, protetto, sostenuto e foraggiato dalle grandi democrazie occidentali, e americana soprattutto!

Tra Israele e Gaza, o meglio tra Israele e palestinesi, non è la prima guerra che scoppia. Gaza sta facendo la fine di Tall-el-Zaatar, quando quel campo profughi palestinese fu distrutto e i suoi abitanti massacrati con una ferocia mai vista prima. Ma Gaza è governata e controllata da Hamas ed è diventata il fulcro dell’influenza iraniana in un’enclave nei confini di Israele, cosa insopportabile per qualsiasi governo di Tel Aviv, che vi sia Netanyhau o meno. Perciò, aldilà del fatto che Netanyhau e il suo governo si sia fatto sorprendere dall’attacco micidiale del 7 ottobre in cui le milizie di Hamas e dei jihadisti suoi alleati hanno massacrato, in un giorno solo, più di mille e duecento kibutzim, perlopiù proletari israeliani e ben pochi soldati, e prelevato più di 200 ostaggi; e aldilà delle accuse di corruzione dalle quali Netanyhau ha tutto l’interesse di sottrarsi, rimane il fatto che la reazione israeliana – che i panciafichisti di Washington hanno reputato “fuori misura” – bombardando ciecamente le città palestinesi densamente popolate e uccidendo più di 25 mila civili, la maggior parte donne, bambini, anziani, risponda alla logica ferrea di una guerra nella quale il “nemico” non è soltanto il miliziano armato, ma l’intero popolo del quale il miliziano fa parte. E’ la logica ferrea delle stragi fasciste e naziste, delle stragi dei berretti verdi in Vietnam e in Cambogia, per non parlare delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, a dimostrazione che la guerra che la borghesia conduce contro un popolo considerato nemico è una guerra totale.

In guerre come queste è il proletariato, in realtà, l’obiettivo principale, perché ogni classe borghese sa che, se esiste una forza sociale capace di opporsi ad essa in modo deciso e con una seria probabilità di sconfiggerla, è proprio la classe del proletariato, soprattutto se guidata dal partito di classe, come avvenne in Russia nel 1917. E quando alla testa del proletariato non c’è il partito di classe, ma i partiti della collaborazione interclassista, e così è anche nel caso palestinese, la classe dominante borghese ha raggiunto in buona parte l’obiettivo di deviare l’energia di classe proletaria sul terreno a lei più favorevole senza dover sistematicamente reprimerlo. Nel caso dei palestinesi, è però la spinta indomita a ribellarsi all’oppressione e alla repressione da parte di Israele che spinge a sua volta lo Stato sionista ad una repressione sempre più brutale, sempre più violenta, una repressione che non viene fermata da nessun attacco terroristico tale è la fame di terra e di potere assoluto che la borghesia israeliana dimostra di avere fin dalla sua ricongiunzione in Palestina dopo la seconda guerra mondiale. Al gioco imperialista, all’inizio franco-britannico, poi soprattutto americano, risponde la costituzione dello Stato di Israele, fedele gendarme e boia in terra araba e in una regione strategicamente vitale per il capitalismo mondiale. Ma la guerra attuale di Israele contro Gaza e i palestinesi, mirando come sempre anche al Libano e alla Siria, è scatenata in una situazione internazionale già oltremodo tesa a causa della guerra della Russia in Ucraina, e in una situazione in cui l’economia mondiale è sull’orlo di una crisi recessiva di grandi dimensioni. Ecco, quindi, che lo scontro che appare limitato tra Israele e una milizia terroristica ben organizzata e sostenuta dai nemici di Israele, prende inevitabilmente una dimensione completamente diversa, una dimensione in cui i grandi trust non solo del petrolio e del gas, ma anche degli armamenti, entrano poderosamente in campo. Come sappiamo, da marxisti, non sono gli Stati ad assoggettare i capitali, ma sono i capitali ad assoggettare gli Stati, tanto più nella fase imperialista nella quale comanda il capitalismo finanziario. L’interesse prioritario del capitale finanziario è non solo di approfittare di ogni situazione in cui può speculare per accrescere il suo valore iniziale, ma anche quello di creare le situazioni più favorevoli a quella speculazione. Cosa c’è di meglio di una guerra iniziata, o da iniziare, e da sviluppare nel tempo e nello spazio, per far girare a velocità sempre maggiore i profitti dato che in guerra qualsiasi arma, sistema d’arma, mezzi, equipaggiamenti e infrastrutture sono destinati a consumarsi rapidamente per essere continuamente sostituiti da ulteriori armamenti, equipaggiamenti ecc., per i quali sono necessari enormi investimenti, quindi enormi capitali?

L’intreccio tra gli interessi dei capitali delle grandi compagnie finanziarie mondiali, gli interessi delle grandi multinazionali dedite alla produzione di tutto ciò che si consuma rapidamente e in quantità abnorme (come i medicinali in caso di epidemie e di guerre, gli armamenti, le materie prime per la produzione di energia, l’alta tecnologia ecc.) e gli interessi politici dei grandi Stati imperialisti, supera di gran lunga ogni tentativo dei capitali marginali e dei piccoli Stati di sottrarsi all’influenza devastante del grande capitale rendendosi “autonomi”. Ma tra questi interessi bisogna considerare anche un altro elemento, la forza lavoro salariata, la fonte reale, attraverso il suo sfruttamento, della valorizzazione del capitale. E’ infatti interesse del capitalismo che il proletariato in ogni paese del mondo resti classe sottomessa al lavoro salariato, classe per il capitale, come disse Marx, ed ogni mezzo economico, ideologico, politico, sociale, religioso e repressivo che le classi dominanti ritengono di dover utilizzare perché i proletari non sfuggano a questa loro condanna è giustificato. Da un lato li si chiama a votare, dall’altro li si ammazza perché si ribellano e li si massacra se osano organizzarsi e rispondere con la violenza alla violenza.

Ma la storia insegna che il proletariato, di qualsiasi nazionalità e colore, in qualsiasi parte del mondo, può trasformare la sua forza sociale, indispensabile per il capitalismo in ogni paese, da valorizzatore del capitale – e quindi del suo perenne sfruttamento – a becchino del capitale, a forza sociale che distrugge l’impianto sociale capitalistico e, con esso, la classe borghese che ne rappresenta gli interessi, aprendo all’umanità finalmente il futuro di una società senza classi, senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo, senza oppressioni, senza guerre.

La lotta di classe del proletariato non è la lotta per la democrazia e per la collaborazione interclassista tra sfruttati e sfruttatori: è lotta per la vita contro la classe borghese di ogni paese, contro l’oppressione salariale su cui la borghesia basa il suo potere, contro ogni tipo di oppressione, economica, politica, nazionale, di genere che tutte le classi dominanti – si presentino in giacca e cravatta, con la tunica e il turbante, con la corona o con la divisa militare – esercitano sul proletariato e sulle masse diseredate e proletarizzate in tutti i paesi del mondo. Internazionale è la soggezione delle masse umane al capitale, internazionale sia la lotta di classe contro il capitale e le classi borghesi che ne amministrano il potere.

 


 

(1) da: “Mondo coloniale in fermento”, “il programma comunista” n. 10/1958. 

 

4 gennaio 2024

 

 

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

www.pcint.org

 

Top  -  Ritorno indice  -  Ritorno archivi