1914-2024 : A centodieci anni dalla prima guerra imperialista mondiale
Le posizioni fondamentali del comunismo rivoluzionario non sono cambiate, semmai sono ancor più intransigenti nella lotta contro la democrazia borghese, contro il nazionalismo e contro ogni forma di opportunismo, vera intossicazione letale del proletariato
( Quaderni de “il comunista”, N° 1, Agosto 2024 )
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Appendice :
Contro l’appoggio socialista alla guerra imperialista
Socialismo e «difesa nazionale»
(“Avanti!”, del 21-12-1914)
Nella Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, lavoro di partito svolto da Amadeo Bordiga nelle riunioni generali di Napoli e Genova dell’aprile e agosto 1955 – rapporti che trovarono i testi estesi nei nn. 10-14, 17-23 del 1955, 2-4, 11, 15-18, 20-26 del 1956 e 1-2 e 5-12 del 1957 de “il programma comunista” (poi pubblicato dal partito nel 1976 nel volume che riporta lo stesso titolo) –, dopo i 10 punti che costituiscono la Premessa, inizia la stesura della Parte prima: Lotta per il potere nelle due rivoluzioni, nella quale il punto 9 si occupa di «Patria e difesa», che riprendiamo qui di seguito e che inizia con una citazione dallo scritto di Lenin del settembre 1916, Il programma militare della rivoluzione proletaria (1):
Che scrive Lenin, almeno nella sempre ufficiale traduzione in italiano? «Ammettere “la difesa della patria” nella guerra in corso [1916] significa considerarla una guerra “giusta”, conforme agli interessi del proletariato – e nulla più, assolutamente nulla, poiché nessuna guerra esclude l’invasione. Sarebbe semplicemente sciocco negare “la difesa della patria” da parte dei popoli oppressi nella loro guerra contro le grandi potenze imperialiste, o da parte del proletariato vittorioso nella sua guerra contro un qualsiasi Gallifet di uno Stato borghese» (Gallifet fu il massacratore dei comunardi di Parigi.
Noi, che non cambiamo mai le «proposizioni» o i «teoremi» della teoria, ma talvolta osiamo riordinare l’uso dei simboli, abbiamo messo in corsivo le parole nessuna guerra esclude l’invasione, per rendere evidente la chiosa.
Come non è dialettica la formula: Avversiamo tutte le guerre, così non meno metafisica e borghese è quella: Siamo contro le guerre, a meno che non siano guerre di difesa, e sia minacciato e invaso da un nemico il territorio nazionale, dato che la difesa della patria è sacra a tutti i cittadini di qualunque paese. Questa è appunto la formula dell’opportunismo che spiega come lo stesso giorno i francesi e i tedeschi votino nelle rispettive unanimità per la guerra nazionale.
Le parole nessuna guerra esclude l’invasione richiamano un articolo dell’«Avanti!» del 1914 su Socialismo e difesa nazionale. Con la formula del dovere della difesa nazionale non si accettano talune guerre, ma proprio qualunque guerra. Sferrato dagli Stati borghesi l’ordine di aprire il fuoco, di qua o di là entrambi i territori sono in pericolo, alle volte uno degli eserciti abbandona per ragioni strategiche il proprio, anche essendo «aggressore», e gli esempi storici sono a iosa. Quindi noi distinguiamo tra guerra e guerra, ed anche se usiamo talvolta i termini popolari (noi invero vorremmo dar loro l’ostracismo) di guerra giusta o difensiva, per designare sbrigativamente una guerra che appoggiamo e di cui crediamo utile il successo al corso rivoluzionario, in realtà ci poniamo solo il problema dialettico storico: questa data guerra interessa il proletariato? E’, come Lenin ha ora detto, conforme agli interessi del proletariato? Per la guerra 1914 si risponde: no, da nessuna parte. Ed hanno torto anche i socialisti belgi sebbene sia pacifico trattarsi di un paese neutro aggredito; hanno ragione i bravi compagni della non meno aggredita Serbia.
Ma ad esempio nel 1848 Marx ed Engels appoggiano l’Austria contro la piccola Danimarca, aggredita palesemente, e fanno, come ampiamente mostrato nel rapporto di Trieste sui fattori di razza e nazione (2), il medesimo per tutte le guerre fino al 1870. Avrebbero appoggiato le invasioni napoleoniche e negato alle guerre tedesche del principio del secolo la natura di guerre giuste, difensive, e perfino di indipendenza, come nella generale idea borghese e piccolo-borghese. Interessava la rivoluzione, allora, che vincesse il primo Napoleone e non la Santa Alleanza.
Comunque è fondamentale sempre in Lenin la preoccupazione che il partito tragga le sue decisioni non dal quadro integrale della nostra completa, complessa, mai seccamente dualistica, veduta della storia che si svolge, ma da una frase formale, che varie volte è una frase borghese. Noi troveremmo più esatto dire non che in dati casi ammettiamo la giustezza della guerra e la patria difesa, ma che davanti alla guerra in dati tempi e luoghi sabotiamo la guerra, in altri difendiamo la guerra. La parola patria è troppo aclassista, e Lenin nelle stesse più diffuse tesi 1916 ben fa propria la frase del Manifesto che patria, noi proletari, non ne abbiamo. Comunque il pericolo di adottare alla leggera parole come quella del disarmo è davvero enorme e significa ripiegamento totale nella ideologia borghese.
L’articolo Socialismo e «difesa nazionale» è stato poi pubblicato, insieme a molti altri degli anni 1912-199, nel primo volume della Storia della Sinistra comunista che il partito pubblicò nel 1964 e, come per ogni altro articolo pubblicato, un breve cappello lo inquadrava nella situazione in cui era stato scritto. Ecco che cosa scriveva questo cappello:
«Questo articolo affronta la diffusa giustificazione di un appoggio socialista alla guerra, ossia quella della difesa contro l’aggressore.
«E’ ovvio che non era l’argomento principale degli interventisti italiani, che si prefiggevano di aggredire l’Austria. Ma l’argomento è fondamentale nei riguardi della tremenda crisi che aveva travolto i socialisti francesi e tedeschi, e l’importanza di quest’articolo risiede nella totale analogia con la posizione che negli stessi mesi prendeva Lenin stigmatizzando ogni “difesismo della Patria”. L’articolo analizza tutte le motivazioni del corrente difesismo e le confuta una per una, dimostrando come l’accettare questa insidia metterebbe il partito proletario in una situazione di totale disarmo della propria azione. E’ mostrato come gli estremi dell’aggressione e dell’invasione territoriale non coincidano affatto con quelli banali della colpa e della responsabilità delle guerre.
«Se si ammettesse il sofisma della guerra di difesa cadrebbe qualunque possibilità di azione antibellica del proletariato e si cadrebbe nel famoso inganno della simultaneità obbligatoria dell’azione socialista entro i vari paesi. A suo tempo questo articolo sollevò vivissime discussioni, e mobilitò intorno alle sue posizioni tutta la sinistra dei socialisti italiani. Il lettore ne potrà seguire agevolmente la deduzione e l’analisi».
Ed ora l’articolo :
Napoli, 15 dicembre 1914
Fra quelle tali formule dogmatiche belle e confezionate... che vorrebbero serrarci intorno al collo, a guida di gioghi, coloro che, da molto o poco tempo, per fortuna loro e della società, vivono fuori del nostro convento, primeggia quella della “difesa nazionale.
Il giogo è accettato senza discutere da non pochi dei nostri: è deciso e consacrato che ben fanno quei socialisti i quali, come uomini e come partito, solidarizzano completamente con la borghesia nazionale nella difesa del patrio suolo, quando questo sia minacciato da un invasore.
Ecco a consolazione di molti, un’eccezione solidamente incuneata ormai nella nostra... orripilante neutralità ad ogni costo.
Ebbene, sia lecito discutere un po’ più a fondo la questione oltrepassandone l’aspetto schematico ed esteriore, saggiandola con l’analisi del dubbio e della critica che una volta tanto saremo noi ad adoperare, contro la Verità che ha già avuto il crisma ufficiale... del sinedrio antisocialista.
Non diversamente dal religioso che sente bestemmiare, i borghesi, i nazionalisti, i democratici guerrafondai sentono rizzarsi i capelli sul capo quando vedono revocata in dubbio anche la santità di una “guerra di difesa”. Poiché la comunissima opinione è stata accreditata, alla buona vecchia maniera dei preti, con la citazione di qualche detto latino, o con qualche esempio semplicemente sballato – vim vi repellere licet – se sono aggredito da un malfattore, ricorro alla violenza per difendermi. Questo modo di tagliare la testa al toro – poco degno di quelle teste pensanti che hanno scoperta e diagnosticata la nostra collettiva deficienza e scempiaggine – trascura la valutazione di tutti i coefficienti che van tenuti presenti se veramente si vogliono evitare le abitudini mentali del dogmatismo più crasso.
Per verità, l’ex direttore dell’«Avanti!», alcuni mesi addietro, dopo aver fatto della questione di cui ci occupiamo la pietra di paragone per distinguere i socialisti dagli anarchici (?!), la prospettava dal punto di vista proletario pressapoco nel modo seguente: per quanto i lavoratori siano coloro che, nulla possedendo, nulla avrebbero da perdere, pure sono essi in realtà le maggiori vittime di un’invasione straniera, non potendo fuggire dinanzi all’esercito nemico come possono fare coloro che dispongono di mezzi finanziari. Gli operai restano quindi maggiormente esposti alle rappresaglie, alle atrocità, alle repressioni nemiche, e di questo fatto non può disinteressarsi il Partito Socialista che ha in un caso simile il dovere di partecipare con tutte le sue forze alla guerra contro l’invasore, rinunziando alla sua pregiudiziale opposizione politica contro lo Stato borghese (3
Da un punto di vista più generico, si potrebbe dire che il proletariato ha interesse a che venga conservata l’integrità territoriale della nazione, per evitare che alla sua soggezione di classe si venga a sovrapporre un’oppressione straniera. Dinanzi ad un pericolo che minaccia lo stadio di libertà politica ed il benessere economico già raggiunti, i lavoratori dovrebbero far causa comune con la borghesie, aprendo una parentesi nella lotta di classe fin quando non sia garantita la sicurezza dei confini.
E’ vero che la minaccia di una invasione genera una coincidenza d’interessi fra tutte le classi sociali di uno Stato, e che il trionfo del nemico costituisce in tal caso per il proletariato un danno materiale e politico; ma una tale minaccia, a causa del militarismo diffuso in tutti i paesi e del suo incremento continuo e universale, grava permanentemente in tempo di pace su tutti i proletari, e si realizza subito dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra due o più governi borghesi a danno delle classi lavoratrici di tutti i paesi che entrano in guerra. In tale critico e febbrile momento, il Partito Socialista dovrebbe indagare se si realizzano o meno gli estremi della difesa nazionale, per decidere se il suo atteggiamento deve essere di concordia completa con gli altri partiti e col governo o di esplicita avversione – la quale può esplicarsi in modi diversissimi: da un voto platonico fino alla proclamazione dell’insurrezione operaia. Tale indagine è resa anzitutto quasi impossibile dal fatto che nei moderni Stati la politica estera costituisce lo stretto monopolio delle sfere dirigenti e tutta l’azione diplomatica è tenuta segreta sottraendola persino al controllo parlamentare. Come dunque assodare a quale delle borghesie belligeranti spetti la responsabilità della guerra, quando tutti i governi dichiarano di esservi stati trascinati per forza mentre lavoravano ad assicurare la pace; e nel momento in cui urge decidere sulla propria azione.
Ma non è questo il punto principale della questione. Anche quando si sia limpidamente accertato qual è lo Stato che ha provocato la guerra, non si è con ciò stabilita una differenza sostanziale fra le condizioni dei diversi paesi dal punto di vista dei rischi e del pericolo d’invasione a cui sono esposte le regioni di frontiera. Mentre le mobilitazioni degli eserciti avversari si svolgono con poche ore di differenza, mentre si ignora quali Stati faranno causa comune con l’aggressore o con l’aggredito, tutte le nazioni interessate si trovano esposte al pericolo di un’invasione, corrono il rischio si una futura oppressione politica, tutte le patrie sono in pericolo e per tutte si realizzano in ultima analisi le condizioni della difesa nazionale.
Quando nel 1859 la Francia e il Piemonte dichiararono guerra all’Austria, fu subito invasa dall’esercito austriaco la provincia di Novara (4). Nel 1870, lo Stato francese, che si proponeva di schiacciare la Prussia, si trovò ben presto nelle condizioni della più disastrosa difensiva. E’ evidente che in tutte le guerre fra Stati confinanti, il pericolo minore o maggiore che corrono i vari paesi non è in ragione dell’origine della guerra, ma della maggiore o minore efficienza militare o della fortuna delle armi; e ciò specialmente perché tutti gli eserciti hanno in ogni momento pronti i progetti di mobilitazione ed i piani strategici difensivi e offensivi da seguire contro gli eventuali nemici.
E’ solo nelle guerre coloniali che coloro che ci tengono a portare certe distinzioni giuridiche nel campo dell’impiego della violenza possono stabilire con certezza, in fatto ed in diritto, l’esistenza e la provenienza di una sopraffazione. Ma, strano caso, sono proprio le guerre coloniale quelle che trovano l’adesione dei democratici fautori del diritto di nazionalità; poiché allora costoro tiran fuori da un’altra casella dei loro evolutissimi cerebri un altro pretesto: quello della diffusione della civiltà democratica.
Ritornando al nostro argomento notiamo che, all’inizio della guerra, assodata che sia la responsabilità di uno degli Stati dinnanzi alla “Storia” od al “Diritto” – ciò che resta sempre per noi marxisti una vuota ed inutile astrazione –, applicando questa diversità di colpe borghesi ad un diverso dovere dei proletari socialisti secondo che appartengano allo Stato aggredito o all’aggressore, non si è fatto che far ricadere sul proletariato e sul partito socialista dello Stato che ha voluto la guerra le conseguenze della politica nefasta delle proprie classi dirigenti, obbligandoli a svolgere l’azione contro la guerra mentre i proletari dell’altro Stato sono autorizzati a marciare nelle file dell’esercito statale, agli ordini di un ministro della guerra socialista, per difendere la patria, sorpassandone se occorre, nello slancio generoso, le minacciate frontiere.
Queste sono le conseguenze a cui ci ha logicamente condotti l’assurdo concetto della legittimità socialista della guerra di difesa. Passando dalla teoria alla pratica, questa restrizione dell’attività antimilitarista del proletariato ha condotto al fallimento dell’Internazionale proletaria di fronte alla guerra europea. Diciamo, fra parentesi, che parlando di azione del Partito Socialista contro la guerra, noi ci contentiamo di riferirci al desiderato minimo del mantenimento della opposizione politica di classe contro lo Stato, anche in tempo di guerra, dipendendo l’ulteriore azione dalle possibilità contingenti del momento. Il metodo ideale è quello della simultaneità che è stata infranta dalla perniciosa e speciosa eccezione della “difesa nazionale” invocata, a torto o a ragione, sempre giocando e cadendo in un equivoco, dai partiti socialisti che in questo momento sono per la guerra. D’altra parte è assurdo supporre che l’opposizione politica o rivoluzionaria che i diversi partiti socialisti fanno in ragione delle proprie forze o della propria preparazione non si risolva in uno spostamento delle probabilità di successo militare dei belligeranti. E poiché le probabilità di vittoria di uno Stato, aggredito o aggressore che sia, dipenderanno dalla sua potenza militare e dal maggiore o minor sviluppo delle tendenze socialiste in mezzo al proletariato, è certo che il Partito Socialista, esercitando un’energica azione contro la borghesia della propria nazione, indipendentemente dalle responsabilità politico-diplomatiche di questa, aumenta le probabilità di sconfitta militare, di invasione nemica, di futura oppressione politica.
Il Partito Socialista si trova dunque in tutti i casi ad un bivio: o sacrificare sull’altare della patria la propria fisionomia e in gran parte il proprio avvenire, o indebolire, seguitando senza scrupoli la sua azione specifica, la nazione a cui appartiene.
Di fronte a questa responsabilità, la gravità della quale non dipende affatto dal famoso concetto della difesa o dell’offesa, il socialismo non dovrebbe mai esitare, per non rinnegare tutto se stesso.
Ma secondo la citata teoria mussoliniana, di epoca correntemente non sospetta, e secondo altre giustissime considerazioni, questo tradimento del Partito Socialista di fronte al nemico si risolve in un cruento sacrifico proletario, e non crediamo che saranno rese meno amare le lacrime delle madri dei soldati uccisi dal pensiero che essi sono caduti invadendo la terra altrui. Ogni azione socialista si risolve in una sofferenza proletaria. Il nostro è programma di negazione che non tende a rendere giuste e utili le istituzioni attuali, ma ad infrangere le continue strazianti contraddizioni sotto l’urto della marea rivoluzionaria. Il proletariato riscatterà il sangue dei suoi figli a prezzo del sangue proprio; ed il socialismo non può trovare altra via per superare le nequizie e le infamie del mondo capitalistico.
Non sembrerà assurda agli uomini dell’avvenire tutta la storia contemporanea delle rivendicazioni sindacali, che si svolge col metodo dello sciopero nel quale gli operai si condannano alla fame e alla miseria per strappare un relativo aumento di benessere? Queste contraddizioni risalgono ai cardini del regime che noi combattiamo, e necessariamente si riflettono su tutta la nostra battaglia, che resterà nella storia come un eroico ma triste martirio, nel quale i conflitti mossi contro l’interesse della classe dominante si risolvono sempre nella strage degli oppressi, scioperanti, sbirri, proletari fatti soldati sotto l’una o l’altra bandiera borghese. Il dilemma e il bivio dinanzi a cui si trova il Partito Socialista è analogo allo shakespeariano «essere o non essere.
In nessun caso, senza rinnegare se stesso, il socialismo può rassegnarsi alla concordia nazionale. Questa è condivisa ed esaltata da tutti gli altri partiti sempre che la patria sia in pericolo, anche se per colpa o per volontà del governo statale. Ma tale concordia non può e non deve essere comune a noi quand’anche la causa dell’orribile fenomeno della guerra fosse nella volontà dei governi nemici, magari con la illusa complicità dei loro popoli.
E’ ben diverso il sacrificio che compiono gli altri partiti da quello che si richiederebbe al nostro. Gli altri hanno nella concordia e nella pace sociale la finalità delle proprie ipocrite ideologie, che mascherano le inconfessabili tendenze delle minoranze dominanti a conservare il privilegio dell’oppressione. Noi siamo invece il partito dell’aperta discordia civile, della proclamata lotta tra le classi, e portare il socialismo al di fuori di questo campo, sotto pretesti presi a prestito dal mondo avversario, significa ucciderlo.
Noi riteniamo che coloro che corrono dietro al punto d’incontro fra il socialismo e i problemi nazionali, saranno ridotti a constatare che il solo modo logico d’intendere la missione storica delle nazionalità costituite in organismi statali è il nazionalismo, per il quale è una nazione e sempre la stessa che costantemente ha ragione; ed ha tanta ragione quanta più è la sua forza armata e minore la interna discordia delle classi.
Ad ogni modo si può sicuramente concludere che la soluzione meno felice, meno marxista, meno socialista, del problema dei rapporti fra socialismo e nazionalità, è quella che si esprime volgarmente nella frase fatta della “difesa nazionale”.
(1) Cfr. Lenin, Il programma militare della rivoluzione proletaria, settembre 1916, pubblicato in tedesco nel Jugend-Internationale, 1917, nn. 9 e 10. Opere, vol. 23, Ed. Riuniti, Roma 1965, p, 78.
(2) Cfr. I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, in “il programma comunista”, nn. 16-20 del 1953, poi in volume da Iskra Edizioni, giugno 1976, nella collana “Sul filo del tempo” in cui sono stati raccolti alcuni scritti di Amadeo Bordiga.
(3) L’ex direttore dell’Avanti!, come si sa, era Benito Mussolini e l’articolo cui qui si fa riferimento è Il “delirium tremens” nazionalista, pubblicato nell’Avanti! del 26 agosto 1914, rintracciabile in B. Mussolini, Opera omnia, VI, Firenze 1952.
(4) Si tratta della Seconda Guerra di indipendenza italiana del 1859, quando Napoleone III e Vittorio Emanuele II si allearono contro l’Austria che, inizialmente riprese il controllo di Novara che poi perse nel contrattacco successivo franco-piemontese.
Partito Comunista Internazionale
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